A volte ci vuole coraggio ad ascoltare. Si preferirebbe non recepire le parole che l’interlocutore sta per pronunciare, perché si teme, o già si sa, che saranno foriere di notizie non gradite. E se anche si coprono orecchie e volto per creare una sorta di barriera, la parola è comunque trasmessa e l’atto dell’ascolto, volente o nolente, ha avuto luogo. Si specchia in questo contesto la figura di Telemaco nel dipinto di Jean-Jacques Lagrenée intitolato “Telemaco incontra Menelao ed Elena a Sparta” (1795). Il figlio di Ulisse e di Penelope, nato poco prima della partenza del padre per la spedizione contro Troia, è in preda all’ansia e avvolge il viso nella sua veste color porpora: si presume che dai suoi occhi escano lacrime. Menelao, infatti, sta ricordando, con accenti affettuosi, Ulisse, peregrino in terre straniere, ostili ed insidiose, e così facendo suscita, non solo in Telemaco, un’atmosfera di pronunciata mestizia: a mitigare la quale ci pensa Elena che versa nel vino un farmaco che fa dimenticare le pene. Telemaco riuscirà, un giorno, a vedere il padre? Con tocco delicato, nel segno di un saldo equilibrio cromatico, il pittore francese comunica lo sgomento del giovane ritratto, pur se di umore dimesso, con una posa classica, quasi plastica, come a dichiarare che il dolore, per quanto acuto, non vale a scalfire dignità ed eleganza. E ascoltando, suo malgrado, la narrazione di Menelao, Telemaco sperimenta, beneficiandone, un processo di maturazione. Diventa adulto: un passaggio, questo, necessario per far fronte alle macchinazioni dei Proci che, appostati presso l’isola di Asteride, tenteranno di ucciderlo.