In teoria non ci dovrebbero essere dubbi su una valutazione formulata da Giorgio Pasquali, insegne filologo e grecista. “D’Annunzio – scrive – ebbe memoria prodigiosa e, a differenza di Carducci, poteva vantare un orecchio ottimo ed educato raffinatamente”. Di conseguenza non c’è da meravigliarsi se il vate seppe orientarsi presto e con facilità nel greco, così come “gli riuscì di sapere il francese moderno come la propria lingua, di scrivere il francese antico con errori, ma con errori di cui si accorge il filologo, non il francese di media cultura”. Inoltre, rileva Pasquali, D’Annunzio era in grado di leggere correntemente l’inglese, anche quello “volutamente sassone e artificiato” di poeti moderni. Spesso esaltatore di sé, il poeta è stato una volta tanto nella sua vita “troppo modesto” quando asserì: “Io sono il supremo degli umanisti, ch’ebbi la pazienza ed ebbi la costanza di vivere in comunione di spirito con l’intiera somma della umana esperienza, con la somma intellettuale e morale a noi conservata dalle lettere greche e latine e italiane e francesi”. Poteva aggiungere “le inglesi”, chiosa, generosamente, Pasquali.
In teoria, si diceva, riguardo ad eventuali dubbi su giudizi espressi da una così alta personalità del mondo della cultura. Ma in pratica c’è chi le riserve, e anche ben argomentate, le ha avanzate. “Lasciamo al filologo classico la responsabilità di ciò che asserisce sulla conoscenza del greco, ma circa il francese – obietta Mario Praz eccelso saggista e celebre anglista – è risaputo che pur conoscendolo bene, egli non lo parlò in modo disinvolto prima del soggiorno in Francia, e quanto all’inglese, non solo non lo parlò mai correttamente, ma, pur affermando di aver imitato le antiche ballate in quella lingua, non lo seppe in modo da scriverlo senza errori. Egli – rincara la dose Praz – doveva conoscerlo imperfettamente se, nel periodo del massimo influsso inglese, all’epoca del “Piacere”, poteva far dire alla cortigiana Clara Green una frase come “Who would have thought we should stand together, Andrew! senza rendersi conto che in inglese to stand together non vuol dire “stare insieme” come in italiano, ma “stare in piedi insieme”. “Cosa assai diversa”, fa notare, con severo ghigno, Praz.
Dubbi, comunque, non ce ne sono sull’altissima stima che D’Annunzio nutriva per sé stesso. Si riteneva l’unico in grado di “esprimere l’inesprimibile”. Così si autocelebrava: “O mia penna aggiustata in una delle sette canne della siringa di Pan disciolta dal lino e dalla cera, dislegata e sparsa! E credo d’averle provate tutt’e sette, nella mia arte notturna di scrivere con tutte le generazioni di suoni originate dalle sette e sette e sette”. Ecco dispiegata la presunta onnipotenza del suo “levis calamus”, di virgiliana memoria.