La cosa migliore che ho mai scritto: una cosa veramente notevole”. E’ un complimento che Francis Scott Fitzgerald fa a sé stesso in riferimento a “Il diamante grosso come l’Hotel Ritz”, un testo che si inscrive nei “Racconti dell’età del jazz”, ovvero gli anni Venti del Novecento, quel decennio – come scrive Fernanda Pivano – in cui si svilupparono “tutte le proteste, tutte le utopie più ottimistiche e tutte le delusioni più spietate”. Espressione icastica di quegli anni ruggenti, i racconti di Fitzgerald rivelano un’eccellente qualità narrativa; le voci, i gesti, gli emblemi esteriori ed effimeri di quel mondo di belli e dannati appaiono – in virtù anche di una robusta componente di ironia – come riflessi di uno specchio deformato che, dirottandoli dalla contingenza di riferimenti concreti, li trasferisce, sublimandoli, in un contesto dal sapore magico e surreale.
Ne “Il diamante grosso come l’Hotel Ritz” la ricchezza – persecutoria ossessione dello scrittore da quando la moglie Zelda lo respinse perché guadagnava soltanto novanta dollari al mese in un’agenzia di pubblicità – è spietatamente ridicolizzata. Basti pensare al castello “con lo splendore dei suoi marmi” sulle “rive di un lago placido”, immerso “con translucido languore femmineo nelle tenebre fitte di una pineta” tra “note acciaccate di violini con armonie rococò”: un linguaggio altisonante, volutamente sfarzoso per denunciare il vuoto che si cela sotto una superficie allettante e patinata. Nel racconto viene biasimata non solo la ricchezza, ma anche la corruzione (non di rado esse vanno di pari passo). Quello della corruzione sarà un tema che avrà un ruolo significativo nei romanzi, da “Belli e dannati” a “Il grande Gatsby”, da “Tenera è la notte” a “Gli ultimi fuochi”.
Nel racconto il tema è svolto in forma di fantasia impregnata di simbolismo. L’immoralità che contamina la ricchezza, con una famiglia di magnati che uccidono gli ospiti per non essere traditi, culmina quando il proprietario della montagna di diamanti offre un pezzo di montagna a Dio recitando una preghiera in cui gli promette altri diamanti più grossi purché Egli lo salvi dall’essere scoperto. Quando Dio mostra di non aver accettato l’offerta facendo risuonare sulla montagna un grande tuono, il corruttore pensa che non l’ha accettata perché non è abbastanza grande.
La satira, la denuncia sociale e il simbolismo si mescolano nel racconto. Come pure si intrecciano con la cinica bramosia del protagonista, drammatica icona del materialismo americano con il suo culto del denaro. Un materialismo destinato ad inquinare e a deturpare la natura, la scienza e la politica. In questo contesto s’insinua, per poi attecchire, quel languore stucchevole tipico delle figure fitzgeraldiane, che si manifesta – con pronunciato e sferzante sarcasmo – nel rapporto intimo di coppia. Svenevole lei, tutto desiderio lui, sono perpetuamente sul punto di baciarsi e intenti a discutere se baciarsi o no. Nel suo microcosmo, questa dimensione narrativa serve a puntare il dito contro quello stile di vita “marginale e incompiuto”, in cui un salutare pragmatismo e un’incisiva fattualità cedono il passo a futili ossessioni e a pose estetiche stilizzate. Il risultato è quello di barcollare proprio sull’orlo del precipizio, con il rischio – mortificante umiliazione – di precipitare, non avendo prima vissuto.
A questo scenario si lega anche il racconto “Primo maggio”, dove è forte l’elemento autobiografico. Anch’egli vittima della corruzione esercitata dal denaro sulla qualità etica e morale degli uomini, Fitzgerald sviluppa in questo racconto una veemente denuncia antiplutocratica. Le storie sono quattro: la storia del giovane ricco diventato povero; del ricco rimasto ricco; del ricco che rinuncia alla ricchezza per seguire la sua ideologia socialista, e la storia di due reduci della guerra in uniforme, “poveri senza amici”. Lo sviluppo indipendente e simultaneo di varie linee di azione apparentemente sconnesse tra loro si basa sull’unità di un unico tema, quello dell’isterismo del primo dopoguerra. Un isterismo che finisce per ledere la tenuta di equilibri sociali già fragili e che compromette la sincera e decisa volontà di ricostruire a partire dalle ceneri e dalle rovine del conflitto mondiale.
A proposito dei “Racconti dell’età del jazz”, Fitzgerald disse: “Ho chiesto molto alle mie emozioni. Il prezzo è stato alto perché c’era una goccia di qualcosa – non sangue, non una lacrima, non il mio seme, ma me stesso più intimamente che in queste cose – in ogni racconto, era il massimo che avevo”. Tuttavia parte della critica non salutò con favore la raccolta. Al veleno fu la recensione pubblicata sul “The Dial”, in cui il giornalista affermava che Fitzgerald era “più un venditore di storie che un artista”. Con una vanteria che gli era insolita, lo scrittore replicò che di fronte al biasimo dei pennivendoli si sarebbe consolato con il favore tributatogli dal suo “pubblico personale”, ovvero gli studenti che lo consideravano come un oracolo. In merito, chiosa la Pivano: “Fu uno dei suoi pochi peccati di vanità. Nel mare di disastro che lo annegò e davanti alle pagine immortali che ci ha dato, pare proprio che gli possa venire perdonato”.