Ci sono dei marchi indelebili che lo scorrere del tempo, per quanto inclemente e corrosivo, non può cancellare, nemmeno scalfire. Come quello di Aldo Manuzio. Quando morì, il 6 febbraio 1515, i libri con l’ancora e il delfino – la sua inconfondibile cifra stilistica – si potevano trovare in tutte le biblioteche degli uomini di cultura e dei potenti del suo tempo. Di lì a poco i suoi volumi avrebbero attraversato l’oceano e raggiunto “le sponde della più alta dimensione letteraria, in una sorta di consacrazione che avrebbe unito indissolubilmente vita e ideale”. E’ quanto scrive Gianluca Montinaro nel libro “Aldo Manuzio e la nascita dell’editoria” – edito dalla casa editrice Leo S. Olschki, Firenze – che evidenzia il valore del primo stampatore “moderno”, il quale assommava in sé diversi talenti: oltre che accorto editore, fu un fine studioso, un concreto uomo d’affari e un fiero idealista. Ma ciò che colpisce di più, e l’autore ha il merito di rilevarlo, è che molti degli accorgimenti formali da lui impiegati nel confezionamento di un libro (dalla numerazione delle pagine all’indice) sono, a distanza di secoli, utilizzati ancora oggi. Nell’immaginario collettivo la figura di Manuzio automaticamente richiama la dimensione squisitamente editoriale: ma Aldo Pio, ricorda l’autore, fu anzitutto un umanista, chino sui testi antichi e attento alla loro riproposizione filologica. La sua fu “un’impresa erculea” che gli valse l’alta ammirazione di Erasmo da Rotterdam che di lui disse: “Aldo ha intenzione di costruire una biblioteca che non abbia altro confine che il mondo stesso”. E l’amico di Erasmo, Tommaso Moro (che nel 1516 dette alle stampe la sua “Utopia”) racconta come su quell’isola gli unici libri che gli abitanti possiedono e leggono sono le opere degli autori greci “nei caratteri minuscoli di Aldo”. Manuzio aveva dell’editoria una visione ampia e, in sostanza, profetica. Parte da lontano per poi giocare d’anticipo in prospettiva futura: egli non si limita alla impressione di un testo ma punta anche a fornire al lettore “un prodotto editoriale” che sia perfetto sul piano testuale e, cosa non meno importante, sul piano grafico. Nello spazio di una notte sorse e si affermò il mito di Manuzio che egli stesso alimentò. Nelle dediche che aprono quasi tutti i suoi volumi, lo stampatore non manca mai di fare cenno alle logoranti fatiche legate al suo lavoro. Esso comporta infatti uno straordinario dispendio di energie: “la curia maniacale di ogni dettaglio tipografico”, “la collazione di più esemplari”, “l’allestimento dell’errata corrige” “la revisione della bozza di stampa”. Ci sono dei testi che hanno segnato autentici spartiacque nella storia dell’editoria. Nel saggio contenuto nel volume Giancarlo Petrella cita il “Virgilio” in ottavo del 1501 e il “Dante” del 1502. Fa quindi riferimento alla venerazione per l’”Hypnerotomachia Polifili”, che rasenta il feticismo: l’edizione, da sola, “è stata in grado di irretire a lungo lo studio della ben più articolata stagione del libro italiano illustrato del Rinascimento” scrive Petrella. L’attività editoriale lo assorbiva completamente: Manuzio, il cui motto era “festina lente”, ovvero felice sintesi di calma e rapidità, si riteneva gratificato ma, al contempo, si ritrovava anche esausto. Così scriveva a un suo lettore: “Certe volte sono talmente pressato, con entrambe le mani occupate e i tipografi davanti a me che aspettano quel che preparo e per giunta mi incalzano con fare importuno e villano, che non riesco nemmeno a soffiarmi il naso. Che durissima attività!”. L’ammirazione dei contemporanei, come pure quella, ancor più significativa, dei posteri, è valsa e vale a compensare Aldo Manuzio di tanta fatica: una fatica sì sofferta, ma anche lodevole e fertile, nobilitata da un afflato profetico.