Dostoevskij non è un autore facile. Non possiede la capacità narrativa o la forza epica di Tolstoj, né sa calcolare i silenzi o anatomizzare gli sguardi dei personaggi al pari di Cechov. La sua è un’opera che sfugge ad ogni teorizzazione. In “Fedor Dostoevskij nostro fratello” (Milano, Edizioni Ares, 2021, pagine 144, euro 14) Armando Torno indaga le ragioni che sottendono la magia delle pagine dello scrittore russo il quale, scrive, “potrebbe essere accolto tra gli eterni soltanto per una riga lasciata in uno dei suoi libri o semplicemente affidata a una lettera”. E poi si chiede: “Che cosa ha di magico la sua scrittura, sovente non curata, il più delle volte vergata in fretta per il disperato bisogno di denaro?”. A questa intrigante domanda l’autore risponde sviluppando un suggestivo percorso che si snoda tra alcuni dei capolavori di Dostoevskij, dai “Fratelli Karamazov” ai “Demoni”, dal “Diario di uno scrittore” all’”Idiota”. Opere che hanno investito con disarmante profondità e con radicale lucidità i temi fondamentali dell’esistenza: Dio e il male, la libertà e gli abissi dell’anima, le leggi, spesso controverse, che regolano il corso della storia.
Dostoevskij non è un autore facile perché è difficile catturarne la cifra umana e le dinamiche narrative. E’ egli stesso, rileva Torno, che fa perdere le tracce alle idee che mette in gioco, perché “l’unica cosa che sembra lo interessi veramente è quella di Dio”. Le azioni umani non sembrano intelligibili senza di Lui. “Fedor – scrive l’autore – riprende il tema romantico della doppiezza, ma lo esaspera; cerca le situazioni estreme, denuda impietosamente la coscienza dei suoi eroi lacerandola, crea senza requie uno spasmodico crescendo utilizzando in conflitti dei pensieri. I personaggi non li lascia tranquilli e si direbbe che in ogni pagina stiano lottando con la propria mente”.
C’è chi testimonia che spesso davanti ai fogli di carta bianchi piangesse perché credeva che tutto fosse stato già scritto. Tuttavia – sottolinea Torno – quando parla di Cristo la sua sintassi si fa originale, chiara, riverente, ma riesce ad avvertire il lettore che il Figlio di Dio è anche frutto di un’infinita ricerca, di angoscia”. E in questo suo dibattersi, si trova davanti la Chiesa. Che volto ha questa istituzione per Dostoevskij? Quello del Grande Inquisitore che ricondanna Cristo? O quello che ha saputo ispirare esperienze monastiche di cui fanno parte, restando nei “Fratelli Karamazov”, le figure di Alesa e dello starec Zosima?
Di certo, osserva Torno, la sua fede non è qualcosa di definito, di sicuro cui aggrapparsi. Essa è dubbio, ricerca esasperata che talvolta si trasforma in tormento. C’è una regola che governa tante sue pagine: occorre tenere sempre conto di Dio e, al tempo stesso, dubitarne, interrogarlo, non arrendersi dinanzi al suo silenzio. Il dramma che egli vive continuamente e alimenta senza posa si trova in una sua frase, una sorta di messaggio in bottiglia che lasca ai posteri. Fedor si sente “tormentato da Dio”. Per questo motivo oscilla tra il Cristo che si presenta “con l’amore che forse lo ha costretto a rivelarsi” e l’ateismo che “desidera trovare pace nel mondo delle assenze”. L’uomo sulla croce spesso diventa “la sua via di fuga” dalle incalzanti questioni de nichilismo.
Fedor dimostra un’attenzione costate per la fede cristiana e peri problemi legati alle domande su Dio. Nel “Taccuino di appunti” si legge: “Che ne pensate, Principe: Dio esiste o no? – Me lo chiedete con tanta leggerezza? Se sapeste come mi tormento per questo, ma rimando sempre la soluzione, perché ho tante cose da fare, comunque dico le preghiere per ogni evenienza”.
Aveva ragione Gide, rileva Torno, quando, dibattendosi di opere in opera, cercava di “entrare più dentro Dio”. Ma è possibile all’uomo? “Questa domanda – scrive l’autore – la giriamo idealmente a Dostoesvkij, che ha una risposta pronta sin dal 1854”. La inviò a Natalija Dmitrievna Fonvizina, moglie di un decabrista, che aveva seguito il marito in Siberia. Lo scrittore incontrò questa donna durante una sosta a Tobol’sk e, in quella occasione, ella gi regalò una copia del Vangelo che Dostoevskij tenne sul comodino fino a quando morì. “Le dirò – si legge nella missiva – che sono figlio del mio secolo, figlio della miscredenza e del dubbio. Quali terribili sofferenze mi è costata, e mi costa tuttora, questa ste di credere, che tanto più fortemente si fa sentire nella mia anima quanto più forte mi appaiono gli argomenti ad essa contrari!”. Lo scrittore afferma quindi di aver forgiato un suo Credo, che consiste nel “credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo”. E aggiunge: “Non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità”.
Questa risposta, evidenzia Torno, dimostra la sua complessa problematica religiosa e lo pone accanto a Kierkegaard, che “scelse l’irrazionalità della fede contro la ragione”. In questo suo affidarsi a Cristo, lo scrittore delinea una visione della storia oltre che la soluzione alle infinite domande sull’esistenza di Dio che percorrono il suo secolo. In sostanza, Dostoevskij non cerca dimostrazioni o negazioni, ma sceglie “l’incarnazione di Dio”. Per lui, la religione supera la storia.