In un mondo sempre più “didascalico” e “polarizzato” la poesia di Thomas Stearns Eliot e la sua proposta di lettura della poesia ravvivano un’esperienza dell’opera d’arte come introduzione alla relazione e al mistero. Non è un caso infatti – afferma Daniele Gigli nel libro “T.S.Eliot. Nel fuoco del conoscere” (Milano, Edizioni Ares, pagine 168, euro 14) – che lo scrittore statunitense naturalizzato britannico si affidi alla scrittura in versi proprio nel momento in cui la sua ricerca di valori ontologici a fondamento dell’essere (centrale nella sua speculazione fin dagli studi di filosofia ad Harvard) “si inabissa nell’inafferrabilità del reale”. E’ questa inafferrabilità che lo conduce all’abbandono della filosofia per la letteratura, ed è questa inafferrabilità che lo indirizzerà negli anni a identificare sempre più la parola come una preghiera, come il tentativo di afferrare, nominandola, la realtà che ci si para di fronte.
Il culmine di tale ricerca – sottolinea lo studioso – sarà l’adesione, nel 1927, alla High Church. Una conversione che, sebbene sia spesso intesa come una resa fideistica, rappresenta un punto di arrivo importante ma non definitivo e pacificante del suo percorso intellettuale, sempre punteggiato dal persistere, nonché dall’approfondirsi, di problematiche, morali e spirituali, che hanno una forte incidenza sul suo pensiero di uomo e di scrittore.
Per Eliot la pratica della poesia si specchia nel lavoro, fedele e paziente, dell’artigiano. Egli crede nell’ispirazione, tanto che non vi è traccia in lui di un’idea di poesia come semplice impasto di parole, ma al contempo è ben consapevole della necessità di “una responsabilità umana al dato ispirato”, che fa della poesia arte nel senso più laico del termine, ovvero progetto, tentativo, lima, e in ultimo la scoperta nell’opera del significato che l’opera stessa intende rappresentare.
“A Eliot – osserva Gigli – non interessa ‘essere capito’ perché la sua poesia non è un comizio. La sua poesia è ricerca e indagine della realtà attraverso la forma rarefatta dell’arte, della parola esatta, dell’architettura che tiene insieme il componimento”. Nel saggio su Dante sostiene che “la poesia autentica è in grado di comunicare prima di essere intesa”. In merito, è illuminante è il giudizio che esprime riguardo all’episodio delle fiere: “Non suggerisco, ad una prima lettura del primo canto dell’Inferno, di preoccuparsi della lonza, del leone o della lupa. E’ molto meglio, all’inizio, non sapere o non curarsi di cosa significhino. Quello che dovremmo considerare non è tanto il significato delle immagini, ma il processo inverso, quello che porta un uomo che ha un’idea ad esprimerla in immagini”. In queste parole si consuma il passaggio della pratica eliotiana del verso – grazie al fecondo incontro con Dante – dal simbolismo, appreso dai francesi di fine Ottocento, all’allegoria. E tale passaggio suggella la convergenza, caratteristica saliente in Eliot, di intelletto e senso. Alla dissociazione della sensibilità che affligge l’uomo moderno, Eliot contrappone non “una discesa nel sentimentalismo”, ma una collaborazione attiva di mente e carne, di senso e ragione.
Sperticata è l’ammirazione di Eliot per Dante, e profonda è la gratitudine che prova per la lezione impartita dal divino poeta. “La pratica di Dante mi sembra insegnare che il poeta debba essere servo della propria lingua, più che il padrone” scrive Eliot. Poi rileva: “Dante mi sembra avere, nella letteratura italiana, un posto che, in questo senso, soltanto Shakespeare ha nella nostra, entrambi cioè danno corpo all’anima del linguaggio adeguandosi l’uno più, l’altro meno consapevolmente, a quelle che intuiscono essere le loro possibilità”. E nel tessero l’elogio della “Divina Commedia” Eliot rileva che l’opera esprime nell’ambito dell’emozione tutto ciò che, compreso tra la disperazione della depravazione e la visione della beatitudine, l’uomo è capace di sperimentare. “E’ quindi per il poeta – afferma – un costante sollecito: all’obbligo di esplorare, di scoprire parole per ciò che è inarticolato, di afferrare quei sentimenti che la gente è talvolta persino incapace di sentire, perché non ha parole per essi; e nello stesso tempo, un promemoria del fatto che chi esplora al di là delle frontiere della coscienza comune saprà tornare e riferire ai suoi concittadini soltanto se mantiene costantemente un saldo aggancio con la realtà alle quali essi sono abituati”.
C’è un altro illuminante riferimento per Eliot, ed è Baudelaire. Nell’intraprendere l’attività poetica egli avrebbe voluto contare sulla lezione di maestri dai quali “mettersi a bottega”, ma intorno a sé sente solo un panorama desolante. Gli viene in soccorso, per sua stessa ammissione, il poeta francese, riguardo al quale così scrive: “Penso che da Baudelaire io abbia appreso anzitutto un precedente, mai sviluppato da alcun poeta vivente nella mia lingua, riguardo alle possibilità poetiche degli aspetti più sordidi della metropoli moderna, la possibilità di fondere un sordido realismo e il fantasmagorico, di giustapporre i dati di fatto e il fantastico. Da lui ho imparato che il tipo di materiale che possedevo, il tipo di esperienza che un adolescente aveva fatto in una città industriale americana, poteva essere materia di poesia; e che la fonte di una nuova poesia poteva essere trovata in ciò che fino ad allora era stato visto come impossibile, sterile, poeticamente intrattabile”.
Da Dante a Baudelaire sgorga dunque una linfa che senza sosta nutre il verso eliotiano, contribuendo ad elevarlo a modello di una poesia capace di coniugare sentimento e ragione, sotto l’egida di un forte senso di responsabilità per la missione – a beneficio della collettività – dell’uomo di lettere.