Forte e fecondo è stato il rapporto di Ezra Pound con l’Italia. Fra Rapallo e Venezia uno dei maggiori poeti americani del Novecento trascorse la maggior parte della sua vita. Di riflesso la sua produzione letteraria risulta irrorata della linfa della cultura del bel Paese. Non a caso il suo capolavoro, i “Cantos”, sono stati paragonati alla “Divina Commedia”. A innervare la dimensione intellettuale di Pound è in particolare la passione per l’arte italiana del Quattrocento: Beato Angelico, Botticelli, Bellini, Carpaccio, Mantegna. Gli artisti, l’architettura, il paesaggio della Serenissima, poi, costituiranno le sorgenti stesse della fase “paradisiaca” del “magnum opus” del poeta e saggista. In questo scenario Pound attesta il suo debito verso l’estetismo decadente, nonché l’anelito al rinnovamento modernista: ecco allora torreggiare la figura di Gabriele D’Annunzio, il quale – in sofferto equilibrio fra modernismo e decadenza – finisce per esercitare una significativa influenza su Pound. Questo aspetto, sebbene rilevante, non è stato preso in considerazione, con la dovuta attenzione, dalla critica. E’ dunque benemerito e opportuno il libro, edito dalla Leo S. Olschki Editore (Firenze), di Andrea Mirabile dal titolo “Ezra Pound e l’arte italiana. Fra le Avanguardie e D’Annunzio”. L’autore – Associate Professor of Italian and Cinema & Media Arts presso la Vanderbilt University of Nashville, Tennesse (Stati Uniti) – indaga le ragioni, grandi e piccole (queste ultime altrettanto importanti e funzionali quanto le prime) che hanno ispirato il vibrante interesse di Pound per l’arte italiana del Quattrocento. Fra tali ragioni figura “l’affettuosa amicizia” fra il poeta e Laurence Binyon, anch’egli raffinato poeta nonché storico dell’arte britannica e vero cultore di Dante. Pound lo frequenta con assiduità durante il suo soggiorno londinese: teatro dei loro incontri sono, per eccellenza, il cenacolo artistico presso il Vienna Caffè (non lontano dal British Museum) e la storica libreria in Vigo Street. Pound riconosce in Binyon l’interlocutore che sa ascoltare e che è degno di essere ascoltato: di conseguenza egli valorizza questo prezioso rapporto anche come valvola di sfogo per lanciare i suoi strali contro precisi obiettivi polemici. Pound stigmatizza, e Binyon con lui, chi vorrebbe ridurre l’arte a oggetto esclusivamente museale. Significativo, in merito, è quanto scrive Binyon in “Thought in East and West: Parallels and Contrasts”: “Our art tends more and more to be detached from the common life, to be dissociated from things of use, to become an affair of museums and exhibitions”. I due sono in perfetta armonia nel denunciare la mercificazione e la massificazione dell’esperienza artistica. Non deve sorprendere dunque – rileva l’autore – che il nome di Binyon faccia spesso capolino nei versi poundiani. Particolarmente interessanti sono le pagine dedicate al rapporto di Pound con Venezia. Lungi dal coltivare “un certo riconoscibile topos decadente”, ovvero una sorta di languida malinconia estetizzante, evidenzia l’autore, Venezia – ponendosi dunque Pound in una diversa, anzi opposta, angolazione interpretativa – è da lui vista come il simbolo di “un perenne invito a espandere e a potenziare, attraverso la sensualità o l’intelligenza, o entrambe, le proprie percezioni, oltre che le capacità creative”. Non stupisce pertanto che il Lido – luogo per eccellenza collegato alla letteratura della Decadenza – venga stigmatizzato da Pound in alcuni passaggi dei “Cantos”, dove la località balneare non evoca sensualità e gioia, ma “una morbosa e pudibonda sensualità”. Lettore fedele di Henry James, anche Pound – sottolinea Andrea Mirabile – crede che Venezia sia uno spazio sublime, inimitabile, eppure concretamente fisico, che “non ci si deve stancare di esplorare nelle sue pieghe, anche quelle segrete”. L’attrazione per Venezia è pari, in Pound, all’attrazione per D’Annunzio, giudicato dal poeta dell’Idaho il più grande scrittore d’Europa. In numerosi punti del corpus di Pound si riscontrano numerosi spunti riconducibili all’opera dell’Imaginifico. Lo scrittore dei “Cantos” apprezza soprattutto l’ultima stagione creativa del Vate. Il D’Annunzio poundiano – scrive Mirabile – è principalmente quello maturo del “Notturno” e dei testi ad esso seguenti o ad esso riconducibili. In effetti il “Notturno” è probabilmente l’opera dannunziana più frequentata da Pound che, non a caso, la analizza estesamente in un articolo pubblicato sul “Dial” nel 1923. Qui Pound dichiara di considerare il Vate superiore a Proust. Pur riconoscendo obiettive differenze tra i due – sul piano concettuale e sul piano stilistico – l’autore mette in rilievo come Pound e D’Annunzio abbiano contribuito a disegnare i tratti più salienti del mondo intellettuale del loro tempo e, al contempo, abbiano anticipato riflessioni di carattere teorico, in primo luogo quelle che vertono sul tema dell’immagine. Non deve dunque stupire che, a proposito dell’immagine, la metafora del “montaggio” risulti una delle più frequentemente impiegate per descrivere la poesia di Ezra Pound.