Si potrebbe definire un trattato sull’etica la decima giornata del “Decameron”: saldamente ancorata alla tradizione del razionalismo antico-medievale, essa prospetta “un’etica della virtù” che pone l’accento sulla scelta di operare nel modo giusto, al momento giusto, con la giusta disposizione d’animo. Sullo sfondo della progressiva dissoluzione del vivere civile provocato dall’infuriare della peste, Boccaccio rappresenta “l’attualizzazione dell’eccellenza morale a partire dal conflitto interno all’anima dei protagonisti, al modo che ognuno ha di atteggiarsi di fronte alle passioni, alla risoluzione della crisi con l’intervento della retta ragione che governa il desiderio e detta la scelta fino al conclusivo riconoscimento morale”.
E’ una lettura profonda e coinvolgente quella proposta da Patrizia Grimaldi Pizzorno, esimia saggista, nel libro “Dopo la peste. Desiderio e ragione nella Decima Giornata del ‘Decameron’” (Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2021, pagine 123, euro 20). Il centro morale dell’ultima decade dell’opera – afferma l’autrice – non è la magnificenza, tema dichiarato della giornata, ma la virtù dianoetica (fondata sull’attività del pensiero) della prudenza, legata alla razionalità che considera le conseguenze dell’agire nella “communitas”, valuta i mezzi e determina come, su un piano strettamente pragmatico, le virtù debbano essere attuate per fiorire nella vita di relazione, in vista del conseguimento del bene della collettività.
La prudenza, fondamento dell’etica, è come l’arte del medico, fondata sul logos. E’ una scienza che non riguarda esclusivamente la teoria, ma anche ciò che è soggetto al cambiamento e necessita di volta e in volta consiglio e deliberazione. Tuttavia, come osserva Aristotele nell’”Etica Nicomachea”, la perspicacia del prudente si distingue da quella del medico poiché “egli è capace di deliberare bene su ciò che è bene ed utile, non negli ambiti particolari, come ciò che lo è per la salute o per il vigore fisico, ma in ciò che lo è per la vita buona in generale”.
Dal canto suo, Seneca, nel “De Beneficiis”, con un richiamo al concetto aristotelico che l’etica, come la medicina e l’educazione, ha come fine comune il conseguimento della virtù attraverso la temperanza, usa l’esempio del medico e del precettore – rileva Grimaldi Pizzorno – per illustrare come spesso i grandi servizi siano spesso gratuiti. Il filosofo investe la distinzione tra “ministerium”, servizio, “officium”, dovere, e “beneficium”, e nota che sia il medico che il precettore “non ci obbligano con la loro arte, che vendono, ma con il loro comportamento generoso e benevolo, ed è per questo che tra il medico, “medicus amicus”, e il suo paziente nasce l’amicizia”. L’invenzione boccacciana dell’allegoria alimentare e della cura del mal di stomaco attraverso una dieta temperante di pane tostato e vernaccia, imposta da Ghino all’avaro abate, “origina da queste premesse filosofiche d è presentata come un beneficio spontaneo”. Ghino infatti compie un’azione liberale, senza coercizione esteriore, senza attesa, garanzia o certezza di restituzione che, per questo solo fatto, comporta una dimensione di gratuità. “La cura gratuita e attenta somministrata dal brigante che visita spesso l’abate e si premura di lasciargli ‘studiosamente’ e ‘di nascosto’ qualche fava secca – scrive la saggista – ha tutte le caratteristiche del ‘beneficium’ del medico senechiano che curando insegna”. Il pur “savio” abate, per il fatto di essere stato accudito “amorevolmente”, “umilmente” dai servitori e “cortesemente” dallo stesso Ghino, che non si rivela fino alla fine, fa esperienza di una vera e propria conversione, che gli fa provare il desiderio della riconoscenza.
Nel contesto dell’indagine del rapporto tra desiderio e ragione, riveste un ruolo significativo l’ottava novella. Il racconto prende le mosse dalla relazione affettiva tra due giovani e virtuosi studenti di filosofia, il romano Tito e l’ateniese Gisippo. La novella, incentrata sulla concezione aristotelica della virtù sociale eticamente fondata sulla “philia” e sul metodo dell’argomentazione retorica classica, trae linfa appunto dallo spinoso conflitto tra brama carnale e controllo razionale, innescato dalla figura di Sofronia, promessa sposa di Gisippo di cui, però, si innamora follemente Tito. Gisippo generosamente salva l’amico dalla fatale ossessione dandogli Sofronia in dono. I parenti dei promessi sposi si indignano per “lo scambio indecoroso”, ma vengono arringati da Tito che, in un discorso modellato sulla retorica forense latina, difende l’onesta della scelta dell’amico e annuncia il suo ritorno a Roma con Sofronia.
Caduto in disgrazia per aver donato all’amico la sua promessa sposa, Gisippo lascia Atene ed arriva a Roma povero e misero. Dopo una serie di disavventure, l’ateniese viene finalmente riconosciuto da Tito che, a sua volta, gli salva la vita offrendo in cambio la sua, gli mette a disposizione il suo patrimonio e gli dona in sposa la sorella.
Attraverso la caratterizzazione dei due giovani, spiega la saggista, Boccaccio intende illustrare il fatto che essi conoscono bene l’arte della retorica, ma sono ignoranti riguardo alla filosofia e alla saggezza pratica. Per Boccaccio, testimone del nuovo orientamento dell’etica del xiv secolo, “la prudenza non consiste esclusivamente in una facoltà generale di tipo strumentale, ma nella conoscenza pratica delle condizioni particolari necessarie all’agire corretto, mediata con le indicazioni razionali che determinano la verità morale”.