L’11 marzo 2011 uno tsunami di trentasei metri di altezza colpì la costa nord-est del Giappone, devastando la regione del Tohoku e provocando più di 18.500 vittime. Una tragedia che è venuta assumendo una pregnanza ancor più forte attraverso il racconto dei superstiti, lacerati dal ricordo dei propri cari defunti e stremati dall’impervia sfida di ricominciare a vivere. Le loro testimonianze sono state raccolte da Richard Lloyd Parry, corrispondente a Tokyo per “The Times”, che per sei anni ha viaggiato nel cuore di comunità ferite e dissolte, in quella periferia estrema del Paese, un luogo remoto. Le testimonianze rappresentano il nucleo del libro “Fantasmi dello tsunami nell’antica regione del Tohoku” (Roma, Exòrma, 2021, pagine 319, euro 18, con traduzione di Pietro Del Vecchio).
Con ritmo incalzante l’autore richiama quei terribili momenti, scanditi da ripetute scosse di terremoto e di assestamento: una sorta di danza infernale in cui il peggio sembrava dover ancora arrivare. “E’ stato – scrive – il terremoto più grande che abbia mai colpito il Giappone ed il quarto più potente nella storia della sismologia”. Ha spostato la Terra di 16.5 centimetri dal suo asse, ed ha avvicinato il Giappone all’America di circa quattro metri. Nello tsunami che ne è seguito, più di 18.000 persone sono rimaste uccise, e mezzo milione sono state sfollate dalle loro case. Tre reattori della centrale di Fukushima Dai-ichi si sono fusi, riversando la loro radioattività in tutta la campagna: il peggior incidente nucleare del mondo dopo Chernobyl. Il terremoto e lo tsunami hanno causato più di 210 miliardi di dollari di danni, provocando la catastrofe naturale più costosa di sempre.
Ciò che colpisce in particolare del racconto di Parry è l’irruzione perversa e deleteria di un fenomeno naturale nella semplice quotidianità. Il leitmotiv di ogni storia è: quella mattina dell’11 marzo sembrava una mattina come tutte le altre. Purtroppo, non lo sarebbe stato. La famiglia Shito, molto unita, aveva temuto di perdere l’adorata figlia, undici anni, Chisato: era andata a scuola, zaino in spalla, di malumore perché il giorno prima aveva avuto un litigio con il fratello e la sorella maggiori. Cose che capitano, ma che acquistano tutt’altro significato quando la prospettiva cambia radicalmente. Quell’arrivederci, scambiato, in un farfugliamento, sull’uscio di casa, si sarebbe potuto trasformare in un addio. La scuola di Chisato venne completamente distrutta. Il terrore invase la famiglia ma dopo ore angosciose giunse la notizia che un elicottero era in volo per recuperare i bambini intrappolati nell’edificio e portarli in salvo. Chisato stava finalmente tornando a casa.
Scrive l’autore: “Anche i bombardamenti aerei più intensi risparmiano i muri e le fondamenta degli edifici carbonizzati, così come i parchi e i boschi, le strade, i sentieri, i campi e i cimiteri. Lo tsunami non aveva risparmiato nulla e nessun surreale confronto con qualunque esplosione avrebbe potuto eguagliarlo. Aveva sradicato le foreste e le aveva sparse per chilometri nell’entroterra. Aveva scorticato la pavimentazione delle strade sparpagliandola qua e là in nastri contorti”.
In quel tremendo scenario era stato difficile anche solo trovare delle bare. Ogni crematorio nel raggio della costa – raccontano alcuni superstiti – ne era rimasto sprovvisto per diversi giorni. La gente guidava per centinaia di chilometri per celebrare un funerale. Un impresario funebre spiega che ogni corpo aveva bisogno di quattro pezzi di ghiaccio, due sotto le braccia e due sotto le gambe: con l’arrivo del calore primaverile, ogni pezzo durò solo pochi giorni. La vita di Hitomi e Hiroyuki – nel mese in cui i cinque corpi dei loro familiari furono infine recuperati e cremati – fu dominata dalla lotta quotidiana per proteggere i loro figli e genitori dalla decomposizione.
Quell’11 marzo Kumagai intuì subito quale minaccia avrebbe potuto rappresentare per chiunque si trovasse nei pressi del fiume Kitakami. Si trovava all’aperto quando arrivò lo tsunami. Saltò in macchina e raggiunse la strada in collina appena pochi secondo prima dell’acqua. Da lì guardò giù mentre lo tsunami distruggeva Okawa e Hashiura, compresa la sua casa ed il suo ufficio. “Era come una montagna nera che si avvicinava – ricorda -. Era incredibile che la montagna si muovesse”.
Dieci giorni dopo il disastro, Ono, sua moglie e la madre vedova attraversarono le montagne “per dare un’occhiata di persona”. Per la maggior parte del tragitto, il panorama fu familiare: risaie brune, villaggi di legno e tegole, ponti su fiumi larghi e lenti. Una volta saliti in collina, incrociarono sempre più veicoli di emergenza: non solo quelli della polizia e dei vigili del fuoco, ma anche i camion vedi delle forze di autodifesa. Erano appena entrati nella zona dello tsunami. Ono ha quasi riluttanza nel descrive la scena che gli si presentò davanti. “Ho visto le macerie, ho visto il mare – infine dice -. Ho visto edifici danneggiati dallo tsunami. Non erano solo le cose in sé, ma l’atmosfera. Era un posto dove andavo così spesso. E’ stato uno shock vederlo. E tutta quella polizia e i soldati. E’ difficile da descrivere. Mi sentivo in pericolo. Il mio primo pensiero fu che era terribile. La mia sensazione successiva fu: E’ successo davvero?”.
Sì, era successo davvero.