Era il 26 marzo 1833: quel giorno il governo granducale decise la soppressione dell’”Antologia”. Un ordine impartito proprio mentre il suo direttore, Giovan Pietro Vieusseux, aveva appena finito di stampare il fascicolo di gennaio, già approvato dalla Censura. Mancava solo di distribuirlo agli associati. Quel numero, il centoquarantacinquesimo della prestigiosa rivista (la più nota della prima metà del xix secolo) si apriva con una dichiarazione programmatica dello stesso Vieusseux e conteneva importanti contributi a firma di intellettuali di alto calibro, fra i quali Giandomenico Romagnosi, Niccolò Tommaseo, Giuseppe Montani, Leopoldo Cicognara. Sebbene stampato in mille esemplari, non uscì mai. Come indennizzo, l’intera tiratura fu acquistata a prezzo di copertina dalle autorità toscane, per mandarla al macero. Vieusseux ne salvò una copia, a ricordo, e la trattenne tra le sue carte personali, conservate alla Biblioteca nazionale di Firenze. Quest’ultimo esemplare, definito dal direttore “un des livres le plus précieux”, è stato pubblicato in riproduzione fotografica grazie alla consueta perizia e sensibilità editoriale di Leo S. Olschki (Firenze, 2021, pagine 186, euro 25). Il volume è a cura di Gabriele Paolini, e presenta una premessa vergata da Cosimo Ceccuti e Gloria Manghetti, rispettivamente presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario del Gabinetto Vieusseux e direttore del medesimo.
In tale premessa si ricorda che l’”Antologia” – il cui sottotitolo recitava “Giornale di scienze lettere e arti” – rappresentò per dodici anni “l’immagine fedele” della civiltà toscana ed italiana. Il periodico rispondeva all’impellente urgenza di scuotere lo stato di torpore che aveva minato la vita culturale italiana e mirava a stimolare il sorgere di nuovi ceti intellettuali chiamati a ridestare il fervore civile dei tempi passati, nel segno di un fecondo rapporto tra l’individuo ed il sapere.
“Nel sottrarre all’oblio testi rimasti inediti e che erano destinati all’’Antologia – scrivono Ceccuti e Manghetti – l’edizione offre l’occasione di restituire l’immagine fedele di ciò che quel numero avrebbe potuto essere e non fu a causa di un vincolo esterno determinato dall’intervento dell’apparato di censura del Granducato di Toscana, che portò alla soppressione della rivista nel 1833. Un’operazione culturale importante che per la prima volta mette a disposizione materiale prezioso e al tempo stesso utile per indagare in modo adeguato una vicenda complessa, permettendo di evidenziare il peso reale e le scelte concrete che l’opera di controllo comportò per Vieusseux e per gli autori”.
Nell’introduzione Gabriele Paolini osserva che secondo “l’ottica fiduciosa” di Vieusseux il rigoroso rispetto dell’ordine – sotto l’egida di un liberalismo moderato – che animava lui e i suoi amici doveva rassicurare le autorità granducali, renderle meno sospettose “di quanto appariva sulle pagine della rivista e indurle ad allentare le maglie strette della Censura”. In realtà, evidenzia Paolini, il conservatorismo illuminato espresso nella lettera-proemio non poteva riuscire gradito ad un assolutista come il principe Corsini, per il quale “il massimo degli ardimenti sociali era rappresentato dal riformismo settecentesco di Pietro Leopoldo”.
In un colloquio con lo stesso Vieusseux, Corsini aveva rassicurato il direttore sul desiderio del governo granducale di “veder continuata” l’”Antologia”: gli promise anzi che laddove si fosse astenuto dal toccare “alcune materie troppo ai giorni nostri gelose e tenere”, la Censura si sarebbe dimostrata “facile e corrente sopra ogni altro letterario e civile argomento”. Tuttavia Corsini non permise l’intera parte della lettera-proemio dedicata al progresso: per Vieusseux “non si trattò certo di un sacrificio lieve”. Le materie “gelose” evocate da Corsini erano quelle che toccavano, direttamente e indirettamente, la politica dell’impero asburgico in Italia. L’esito del colloquio – sottolinea Paolini – fu considerato in materia diametralmente opposta dai due interlocutori. Corsini credeva infatti di aver messo definitivamente in guardia l’editore, mentre l’altro, ignaro delle lamentele espresse dal rappresentante austriaco a Firenze, conte Ludwig Senfft von Pilsach (riguardo ad alcuni rilievi in merito alla preminente posizione di Vienna in Italia) pensava di aver ottenuto ampie rassicurazioni e perciò si stava ponendo all’opera per far uscire il fascicolo di gennaio. Ma quel 26 marzo 1833, quando la mannaia della censura si abbattè sulla rivista, il direttore si dovette ricredere. Ed inutilmente, scrive Paolini, Vieusseux tentò di far presente a Corsini come un giornale, “frutto di dodici anni di fatiche e di angustie d’ogni genere”, costituisse “una vera proprietà non territoriale, ma letteraria”. Di parere opposto era Corsini, che dichiarò: “Il Governo concede un permesso, poi gli piace di ritirarlo, e fa quel che vuole e che crede bene”. Si scontravano così due concezioni antitetiche, non solo sul carattere e sul frutto di opere di ingegno, ma sulla stessa possibilità di espressione del pensiero e sulle prerogative del potere sovrano.