Non solo Giacomo. In casa Leopardi si muovevano altre figure, certo di minor spicco rispetto al poeta, ma pur sempre di rilievo in uno scenario in cui convergono sapere autentico, cultura libresca, drammi umani, amori contrastati e tensioni inappagate. Spicca, in tale mosso contesto, il fratello Pierfrancesco, che fu “il solo che diede proseguimento alla famiglia”, come afferma la nota introduttiva al libro di Raffaele Urraro “Il romanzo familiare di Pierfrancesco Leopardi” (Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2020, pagine 258, euro 23).
“Non saranno pochi coloro i quali – scrive Urraro – si chiederanno perché mai l’autore di questo libro abbia dedicato una monografia a Pierfrancesco, anche perché si tratta di un personaggio per lo più trascurato o ignorato dagli studiosi”. La ragione sta nel fatto che Pierfrancesco non è vissuto solo di “luce riflessa” (la luce di Giacomo), ma ha una sua “autonoma e specifica valenza: egli permette infatti di conoscere non soltanto il suo personaggio e i suoi familiari, ma anche, e meglio, la stessa famiglia Leopardi, i codici di comportamento in essa vigenti, i modi e le forme di certe convenzioni sociali, soprattutto “in tema di amori e matrimoni e di eredità”, che regolavano la vita delle famiglie dei nobili dei primi decenni dell’Ottocento.
Nella paziente e approfondita ricerca sulle tracce di Pierfrancesco (fonte preziosa di notizie, è stato l’”Epistolario” di Giacomo) un ruolo speciale è stato riservato dall’autore a Paolina: il ruolo di osservatrice attenta e vigile, nonché di testimone di quanto avvenne nella vita di quel Palazzo di Recanati dove si svolse gran parte della vita dei figli di Monaldo e Adelaide, e dei loro diretti discendenti.
Pierfrancesco intraprese sin da giovane la carriera ecclesiastica. Il 29 ottobre 1825 (aveva dodici anni) ricevette “lietissimamente” la prima tonsura. A Giacomo, che era Bologna il fratello, nel dare notizia dell’avvenimento, così scrisse: “Mio Carissimo Mucciaccio, mi feci abate nel giorno dei SS. Simone e Giuda. Ritornando a casa Babbo mi regalò una saporitissima piastra”. A questa lettera, Giacomo così rispose: “Caro Pietruccio, mi rallegro della vostra abbazia, e quando sarete un abate ricco, ogni volta che avrò bisogno di piastre, ricorrerò a voi. Mi consolo anche del vostro bello stile, e vi assicuro che se andrete avanti così, diventerete col tempo un bravo scrittore”. L’abito talare verrà poi deposto. “Il giovanotto sente che la vita del prete, che impone sacrifici e limitazioni, non gli appartiene per nulla” scrive Urraro. A questa scelta ne seguirà un’altra, che svaporò in “una scriteriata fuga d’amore”, con una ragazza di nome Maria. E il matrimonio, dopo tormentate vicende, saltò. La fuga di Pierfrancesco era coincisa nel lasso di tempo in cui ebbe luogo la morte di Giacomo, il 14 giugno 1837, a Napoli: due avvenimenti che colpirono duramente Monaldo. Come rileva l’autore, si trattò di una “triste coincidenza”.
Per espiare il suo “torto” Pierfrancesco fu mandato a Bologna, da dove comincerà la seconda fase del rapporto epistolare con il padre (la prima fase si era sviluppata quando Monaldo si trovava a Roma). Non mancano mai le dolenti note. La contessa Adelaide si rammaricava delle spese che avrebbe dovuto affrontare per il soggiorno del figlio nella città emiliana. Che la signora sbuffasse quando si trattava di sborsare denaro, era cosa ben nota in casa Leopardi. L’esperienza a Bologna non fu felice. Pierfrancesco girava per le strade senza una meta: si sentiva “ridicolo” a comportarsi così. Nel giorno del suo ventiquattresimo compleanno non si sente ancora un uomo, ma un “futicchiaccio”, termine marchigiano che significa “giochetto”, vale a dire, un essere inutile.
Nel frattempo vennero avviate le ricerche, con ritmo intenso, di una moglie per Pierfrancesco, che gli facesse dimenticare i subbugli precedenti. Finalmente conobbe Cleofe. La cerimonia nuziale si svolse il 29 aprile 1839, nella chiesa di San Pietro, ad Ancona. Qualche anno dopo, nel 1847, morì Monaldo. Le lettere vergate da Pierfrancesco si possono collocare nella terza fase del rapporto epistolare con il padre, in cui il figlio tesse i convinti elogi di chi lo ha messo al mondo. In una lunga missiva, che Urraro riporta per intero, si legge: “Il mio diletto e compianto genitore in mezzo ai vasti e profondi studi di politica, teologia, letteratura ed economia pubblica, si occupò molto della storia della sua patria, e varii critti sulla medesima diè in luce, e più ne avrebbe data se la fiera malattia che poi lentamente lo trasse al sepolcro non gli avesse tolto dalle mani l’ultimo suo grandioso lavoro storico su Recanati, al quale lavoro negli estremi anni della sua vita si occupava con grande affetto e predilezione”.
La morte colse Pierfrancesco il 29 settembre 1851: si spegneva una giovane esistenza. Sottolinea l’autore che fu un avvenimento inaspettato: avvolto, per certi aspetti, nel mistero perché nulla lasciava presagire la sua scomparsa. L’evento sconvolse Paolina che in una lettera parla di “morte misteriosa”. Ma tale affermazione viene accompagnata da una considerazione di natura religiosa: come a dire che la morte del giovane fratello, così inaspettata, appartiene ai “misteriosi decreti divini”.