Fu scritto nel marzo del 1915 “Esame di coscienza di un letterato”, ovvero pochi giorni prima che l’autore, il trentenne Renato Serra, venisse inviato, in qualità di ufficiale, su quel fronte dell’Isonzo che gli si sarebbe rivelato fatale (morì combattendo sul monte Podgora). Il saggio venne subito pubblicato sulla rivista “Voce”, diretta da Giuseppe De Robertis, che lo giudicò uno dei capolavori della letteratura italiana del Novecento.
In quest’opera Serra portò la vocazione autobiografica e lirica tipica dei “vociani”, nonché gli estri e gli umori di un uomo di finissima sensibilità. Sono pagine critiche caratterizzate da un vertiginoso andirivieni di descrizioni paesistiche e di effusioni liriche, in cui si compie una singolare sintesi tra la vocazione del critico letterario e il talento dello scrittore. Spicca, in questo esame di coscienza, la consapevolezza di un’amara solitudine che si manifesta nell’incapacità di aderire alla vita e di socializzare con gli altri.
Serra avverte con acuto disagio i limiti della sua condizione di letterato, le pastoie del “carcere d’inchiostro”, sperimentando su un duplice piano le carenze di tanta letteratura. Da un lato, egli rifiuta “i miti attivistici ed estetizzanti” che si specchiano nella narrativa dannunziana e nell’ideologia futurista; dall’altro, recalcitra di fronte alle angustie legate alla sensibilità decadente e a un solipsismo che riduce, arbitrariamente filtrandolo, il magma della vita a letteratura di rarefatta purezza. Da questa prospettiva, sofferta e macerata, nasce la sua adesione alla guerra. Un’adesione che scaturisce dal desiderio di schierarsi al fianco della gente umile della sua Romagna. Partecipare alla battaglia sul campo significava per Serra montare una rivolta contro la letteratura intesa come impegno solo formale e accademico.
Privo di una consapevolezza politico-ideologico delle forze che quella guerra aveva scatenato, Serra – rileva Salvatore Guglielmino – imposta il problema su un piano esistenziale più che storico. L’elemento che distingue la sua adesione alla guerra da quella di D’Annunzio (e di tante altre figure importanti dell’epoca) – motivata per questi ultimi dall’irrazionalistico fascino della violenza e dalla seduzione della barbarie rigeneratrice – è la dolente ricerca di un contatto e di una giornaliera comunanza di vita e di rischio con gli altri, l’ansia di rompere l’orgogliosa solitudine che era stata il motivo di fondo della letteratura di quei decenni.
Nel saggio Serra non risparmi strali né a D’Annunzio né ad altre illustri personalità del tempo, tra le quali Croce. Il vate, scrive, con il passare del tempo “non è cresciuto di nulla”. Le sue frasi e le sue parole suonano sempre “dolorosamente vecchie e false”. Per lui “non cambia mai niente”. Il critico non è altrettanto severo con Croce, “sequestrato in un’acredine di pedagogo fra untuoso e astioso”. Egli “si degna di consolare le nostre angosce dall’alto della sua filosofia, sicuro che tutto alla fine è e non può essere, anche in questa guerra, altro che bene e vantaggio e progresso”.
Sollevando lo sguardo e ponendosi su un piano “cosmico” Serra, con un tono di corrucciato risentimento, scrive: “Io non faccio il profeta. Giudico le cose come sono. Vedo questa terra che porta il colore disseccato dell’inverno. Il silenzio fuma in un vapore violetto degli avanzi del mondo dimenticato al freddo degli spazi. Sotto il cielo vuoto si sente solo la stanchezza delle vecchie strade bianche e consumate giacere in mezzo alla pianura fosca. Non vedo le tracce degli uomini. Le case – osserva – sono piccole e disperse come macerie. E la vita continua, attaccata a queste macerie, incisa in questi solchi, appiattata fra queste rughe, indistruttibile”. Nel segno di un forte pessimismo, si fondono il rigore della prosa e l’afflato della poesia.
Ma il pessimismo di Serra, che si traduce in una disincantata visione del mondo, non esclude uno spiraglio di luce. La guerra “ha devastato e sgominato”, eppure, sottolinea il critico con accento virile, “la vita è rimasta, irriducibile, nella sua animalità istintiva e primordiale, per cui la vicenda del sole e delle stagioni ha più importanza alla fine di tutte le guerre, rumori fugaci, percosse sorde che si confondono con tutto il resto del travaglio e del dolore fatale del vivere”.
Parole, queste, che rivestono – per il mondo di oggi – un valore di potente attualità.