E’ un avvincente viaggio quello che Donato Carusi sviluppa nel libro “Sua maestà legge? Tre secoli di potere, diritto e letteratura” (Firenze, Leo S. Olschki, 2022, pagine 458, euro 38). Un viaggio tra eventi storici e riferimenti culturali che muove da un preciso interrogativo: quanto c’è di veramente nuovo nell’idea di coniugare la riflessione sul diritto a quella sulla letteratura? Il libro è ricco di acute valutazioni e profonde meditazioni su temi di perenne attualità, dalla dignità della persona alla tutela del lavoro, dalla discriminazione e dal razzismo alla democrazia e alla globalizzazione. Ma il saggio di ampio respiro di Carusi si distingue in particolare per l’incisiva analisi condotta su alcuni degli scrittori che hanno fatto la storia della letteratura. In merito, spicca il capitolo intitolato “Viaggio ai confini della notte”, in cui l’autore si sofferma sugli anni a ridosso della prima guerra mondiale che dal punto di vista artistico, scientifico ed intellettuale rappresentarono “una stagione fertilissima”.
E sono gli anni in cui con il consolidamento del romanzo quale genere letterario per eccellenza i canoni naturalistici, solidi fino a quel momento, cominciano a vacillare perché insidiati da un pensiero e da uno stile che inquadrano la realtà da una ben diversa prospettiva. Con “una vita” (1892), “Senilità” (1898) e “La coscienza di Zeno” (1923) Italo Svevo, in netto contrasto con la narrativa del passato, fa dell’interiorità dei personaggi l’unico tramite attraverso il quale i fatti di carattere storico-sociale si rivelano al lettore. Sono personaggi deboli e irresoluti, che nutrono ambizioni ma sono incapaci di scegliere e di agire. Dal canto suo, tra il 1913 e il 1919, Marcel Proust porta a compimento l’imponente ciclo intitolato “Alla ricerca del tempo perduto”. Lo stile di scrittura non è formalmente troppo lontano dai modi ottocenteschi. “Ma – rileva Carusi – mentre nei romanzi di Balzac, di Tolstoj e di Zola, e ancora ne ‘I fratelli Karamazov’ l’introspezione dei personaggi era largamente mediata dal resoconto delle loro azioni e degli accadimenti del mondo circostante, qui l’azione dei personaggi è ridotta al minimo, mentre gli eventi storici e le dinamiche sociali sbiadiscono sullo sfondo”.
Al proscenio sta direttamente la materia psichica, registrata e resa con pazienza e una minuzia che “non hanno precedenti”. La biografia dell’individuo è determinata non solo dalle passioni più ardenti e dai pensieri razionali, ma anche da processi nascosti nelle pieghe della coscienza, da ricordi più o meno vividi.
E nel 1922, a riprova di una stagione letteraria di incanto, appare “Ulisse” di James Joyce, un romanzo che conferisce il massimo rilievo alla scelta di elevare l’ordinario e l’accidentale ad oggetto dell’attenzione letteraria. Tre secoli prima, osserva l’autore, “Don Chisciotte” aveva messo in ridicolo l’eroe idealizzato della letteratura cavalleresca medievale: l’”Ulisse” fa adesso il verso all’intera storia della letteratura, suggerendo che anche il romanzo moderno ha ammantato di avventura e di pathos una realtà dominata dal caso e dal disordine. “Non è qui solo questione di dinamiche del pensiero e di tortuose sequenze emozionali – scrive Carusi -. Joyce mostra con una franchezza prima inusitata le pulsioni primordiali, le funzioni fisiologiche, gli appetiti alimentari e sessuali”. Il libro, non a caso, fu ritenuto blasfemo e Joyce fu penalmente perseguito per oscenità.
In quegli stessi anni irrompe sulla scena letteraria – con “La signorina Dalloway” (1925) e “Gita al faro” (1927) – Virginia Woolf, un’altra figura giudicata “scandalosa” per la rigorosa sincerità autobiografica con cui – avvalendosi di mezzi formali e stilistici raffinati – riversa sulla pagina l’ansia di libertà e di autenticità che erompe dalle profondità dell’io e con esse l’instabilità della mente umana. “La Woolf – ricorda l’autore – è una delle prime sperimentatrici del romanzo polifonico, in cui si alternano le voci narranti di più persone o di più spettri dentro di loro”. L’effetto che ne deriva è quello di suggerire che non si dà nessuna verità sicura: tutto cambia a seconda della prospettiva di giudizio dei singoli individui, i quali non solo si trovano in perenne competizione, ma sono anche scissi e combattuti nella loro rispettiva interiorità.
In questo contesto in cui si consumano, con sconcertante simultaneità, la crisi dell’identità dell’individuo e la frantumazione dei valori fondamentali della società, torreggia la figura di Luigi Pirandello. Nel 1904 esce “Il fu Mattia Pascal” e nel 1926 “Uno, nessuno e centomila”: opere che con inclemente perizia scavano nell’animo umano denunciandone contraddizioni, falsità e debolezze. E da tale impietosa ma salutare analisi deriva, di conseguenza, la descrizione, altrettanto illuminante, di una società ipocrita e fallace, la cui quotidianità è dominata dall’apatia e da un pervasivo senso di vuoto. S’impone dunque un disagio esistenziale che si specchia in una realtà disgregata negli incongrui e scheggiati riflessi delle sbiadite percezioni altrui.