Ne “L’arte del romanzo”, un saggio del 1884, lo scrittore statunitense, naturalizzato britannico, Henry James, scriveva che “la sola ragione dell’esistenza di un romanzo è che esso tenta di rappresentare la vita”. Si tratta del tentativo di scavare, di trovare e poi – atto finale – di selezionare. In linea con questa valutazione, nella prefazione a “Le spoglie di Poynton”, James dichiara: “Poiché la vita è tutta inclusione e confusione, e l’arte tutta discriminazione e scelta, quest’ultima, in cerca del duro valore latente di cui solo si preoccupa, ringhia attorno alla massa tanto indistintamente e infallibilmente quanto un cane sospettoso d’un qualche osso sepolto”. Tuttavia, mentre il cane cerca il suo osso per distruggerlo, l’artista trova “nella sua piccola pepita, lavata dalle incrostazioni e martellata in sacra durezza, la materia stessa per una chiara affermazione, l’occasione più felice per l’indistruttibile”. Dalla sua coscienza d’artista – in cui vibrano una fervida tensione etica e un mai sopito sussulto di umanità – sgorga il monito, rivolto anzitutto ai giovani. “Vivete – esorta Henry James – tutto quello che potete. E’ un errore non farlo. Non ha molta importanza quello che fate in particolare, purché la vita sia vostra”. Riuscì lo scrittore in questo intento, da lui stesso raccomandato con vigorosa tensione? Nei suoi “Taccuini” chiosò: “Io volevo fare più o meno quello che ho fatto”. Sembra che ci sia riuscito.