L’unico neo è che ci sono più o meno cento pagine superflue: per il resto è il solito grande thriller quello a firma di Jo Nesbo, “Knife”. Ancora una volta il protagonista, il detective Harry Hole, spadroneggia con la sua figura imponente e scarruffata, cui, per contrasto, si lega una lucidità e compostezza cartesiana nello sbrogliare intricate matasse e nell’orientarsi in labirintiche deduzioni, al fine di scoprire la verità. Spesso molto amara.
Nesbo è stato musicista, e attore, nonché un giocatore di calcio nella squadra del Molde, con cui ha vinto una competizione nazionale riservata agli Under-19. Prima di dedicarsi al thriller, ha lavorato anche come giornalista free-lance e ha fatto il broker in borsa. Un curriculum certamente particolare per uno scrittore ora considerato uno dei migliori giallisti in circolazione.
Anche in questo ultimo thriller figurano alcuni luoghi comuni: l’anima buia e tormentata di Hole trova refrigerio e consolazione, entrambi effimeri, nel bere. Al contempo, le autorità di polizia competenti gli negano l’autorizzazione – vista la sua instabile situazione psicologica e considerando i suoi comportamenti non protocollari – a indagare un caso di omicidio. Le stesse autorità, tuttavia, sanno bene che il detective è il migliore e, di conseguenza, sono combattute tra la volontà di far rispettare le regole e il desiderio di aggirarle nella consapevolezza che chi quelle regole le viola è anche il solo in grado di scoprire l’assassino.
Questo scenario, ben collaudato, è presente in altri suoi gialli, da “Il pettirosso” a “La stella del diavolo”, da “L’uomo di neve” a “Il leopardo”. Ma non si tratta di una stanca ripetizione causata da un’ispirazione incapace di trovare vie nuove. Il lettore fedele di Nesbo sa che dopo questa sorta di incipit “istituzionale”, il giallo comincia a prendere velocità, per poi decollare. Anche in “Knife” l’autore sfoggia uno dei pezzi forti del suo repertorio, ovvero la riflessione sui moti più reconditi dell’animo umano che, di fronte alle iniquità dell’esistenza, viene a configurarsi come un guazzabuglio di tensioni ed emozioni.
Il versante giallistico e la dimensione meditativa non procedono parallelamente. Al contrario, s’intrecciano nel corso della narrazione. In questa osmosi Nesbo mostra la capacità di presentare la riflessione sull’animo umano come preziosa alleata della ricerca del colpevole. In “Knife” tale impostazione narrativa risulta talora venata di una deriva predicatoria: qualche lapidaria sentenza sarebbe stata preferibile a monologhi che rischiano di essere verbosi.