Non riuscì a farsene una ragione Georges Simenon, di non essere stato insignito del premio Nobel per la letteratura. Era convinto, infatti, di meritarlo. Non solo per il suo talento e per la sua poderosa prolificità (scriveva di media ottanta pagine al giorno tra romanzi, racconti, lettere e articoli giornalistici sotto lo pseudonimo di Georges Sim), ma anche per gli “strenui sacrifici” sostenuti per raggiungere uno stile perfetto. Sacrifici ancor più rimarchevoli perché fatti in un’epoca in cui gli scrittori tendevano a privilegiare un linguaggio poco disciplinato e poco sorvegliato. A distanza di tempo è ancora vibrante l’afflato di quel suo infaticabile “labor limae”, diretto a forgiare, nel segno di una rigorosa metodicità, la frase che doveva ispirarsi ad una semplicità spartana e ad una essenzialità spoglia, ma mai banale.
Il suo certosino lavoro di revisione, sollecitato dall’illuminante intuizione del suo primo editore, si concentrò sulla graduale quanto inesorabile eliminazione degli aggettivi, rei – se usati con smodata prodigalità – di contaminare e ostruire la fluidità di espressione.
Quando il creatore dell’immarcescibile commissario Maigret portò le sue prime opere all’editore, questi, con profetica chiaroveggenza, capì che chi gli aveva sottoposto quei fogli sarebbe diventato un grande scrittore. Ma andavano apportate alcune correzioni: altrimenti a quel giovane occhialuto non avrebbe mai arriso la fama. Quando, convocato, l’aspirante scrittore gli fu davanti, l’editore – sventolando i fogli – lo apostrofò con severo cipiglio: “Simenon, quando toglierà gli aggettivi, diventerà Simenon”. E così fu. Per poi confessare, in tarda età, – richiamando quella lezione – che quando leggeva i testi di altri scrittori, lo faceva sempre con la sua inseparabile matita, usata per cancellare “tutti quegli aggettivi che indeboliscono la frase invece che rafforzarla”.
Simenon cominciò a scrivere a sedici anni firmando articoli di cronaca nera per la gazzetta della città natale, Liegi. Venne subito apprezzato, ma il salto di qualità lo fece trasferendosi a Parigi. Nella capitale francese avrebbe conseguito quella maturità letteraria alla quale si si sarebbe accompagnata l’acquisizione di una cifra narrativa ben definita, la quale si identifica nella realizzazione di un giallo che non si esaurisce nell’identificazione del colpevole, ma che assurge ad analisi paziente e approfondita dell’animo umano. “Più indago le brutture dei bassifondi di Parigi, più penetro nei recessi del cuore umano” soleva dire, pipa in bocca, Simenon.
Suo grande ammiratore, Alberto Savinio lo definì “un Dostoevskij mancato”. Solo in apparenza una critica. In sostanza, un elogio che mostrava di comprendere perfettamente l’arte di Simenon, capace di mettere a nudo le debolezze dei suoi personaggi, di costruirne i sogni per poi smontarli, di raccontarne le ambizioni per poi frustrarle.
La grandezza delle opere di Simenon si specchia in un ossimoro: più sembrano scritte con il freno a mano tirato, più risultano scorrere veloci. La lentezza della penetrante analisi psicologica dei soggetti è in realtà il viatico per una struttura narrativa che – coniugando indagine poliziesca e indagine introspettiva – spicca per complessità e dinamicità. E il paragone con lo scrittore russo non è certo azzardato. In Simenon, infatti, la capacità di descrivere, con poche e sapienti pennellate, le profondità abissali dei sentimenti, le sfumature delle emozioni e i capricci portati all’eccesso, raggiunge vette eccelse. Romanzi come “Una testa in gioco”, “Il pazzo di Bergerac”, “La casa dei fiamminghi” sono esemplare testimonianza di tale capacità.