Sembra contraddire il suo tradizionale linguaggio pittorico “Vele nel porto, paesaggio marino”, che Carlo Carrà realizzò nel 1923. Il quadro è ispirato ad una nuda, brusca essenzialità. Gli elementi raffigurati sono quelli classici del repertorio in relazione ad un contesto legato al mare: barche, onde e molo. Non vi sono aggiunte o fronzoli ad arricchire il contesto. Dall’artista, del quale si conoscono e riconoscono importanti contributi al movimento futurista, ci si sarebbe potuti aspettare una diversa trattazione del tema, ovvero un impiego più ampio e sfarzoso di figure, animate e inanimate, al fine di una resa più laboriosa e appariscente della tela. Ma è proprio questa asciuttezza espressiva che conferisce alla composizione una profonda incisività, cui si accompagna l’uso sapiente del bianco e nero. Un’essenzialità trasmessa con i colori, per giunta con i colori accesi tipici della sua produzione, non sarebbe risultata scarna come da lui voluta. L’opera sicuramente risente del periodo “naturalista” di Carrà, durante il quale, come egli stesso ebbe a dire, sperimentò una sorta di sentimento panico di stampo dannunziano: di conseguenza, veniva a saldarsi, nella sua narrativa pittorica, il legame tra l’uomo e la natura. “Vele nel porto” s’inserisce quindi in questo scenario, configurandosi come un omaggio alla “bellezza struggente” di un paesaggio cui, per commuovere l’animo e toccare il cuore, possono bastare due vele che ondeggiano e un porto sicuro, pronto ad abbracciarle e custodirle. Anche quando compose opere “metafisiche” e “trascendenti”, Carrà si propose di “essere soltanto sé stesso”, nella consapevolezza che l’artista ha sempre il dovere di soddisfare, l’esigenza di immedesimazione con le cose. Ogni paesaggio, soleva dire, deve risolversi nella “costruzione”, al contempo esteriore ed interiore, di un quadro, sia esso di soggetto montano o marino.