Nel 1828 Eugène Delacroix aveva esposto al Salon la “Morte di Sardanapalo”. L’atteggiamento della critica, nei riguardi del quadro, fu tutt’altro che favorevole. In risposta, l’artista francese scrisse un articolo in cui si scaglia, con pronunciata veemenza, contro i detrattori, definiti “incompetenti e superficiali”. La sua è una robusta requisitoria che intende scalzare la radicata tendenza della critica di “annoiare la brava gente con il suo linguaggio oscuro, zeppo di termini di cui mal si capisce il significato”. I critici d’arte hanno la cattiva abitudine di innescare, senza un motivo plausibile discussioni che al lettore “lasciano solo un senso di confusione”. E tali discussioni non possono essere certo tollerate dagli artisti perché, scrive Delacroix, “lungi dal contribuire al progresso dell’arte, finiscono con il rendere confuse anche le questioni più semplici, falsando tutte le idee”.
Il povero artista, “messo a nudo con la sua opera”, aspetta dunque con grande ansia “le sentenze di questa moltitudine invasata dal furore del giudizio”. Una volta sceso nell’arena, “tutti i suoi errori tornano ad opprimerlo”, ed egli, indifeso, “vede affilare contro di sé questa arma terribile, questa penna il cui fiele lo brucia fino alle ossa”. E tutto ciò, lamenta Delacroix, senza che egli abbia neppure la triste consolazione di “salire a sua volta in cattedra e perseguitare il critico a modo suo”.
Ad ogni tentativo audace di coloro che vogliono che le cose siano presentate nel loro vero aspetto e non soltanto sotto forma mondana o da opera comica, i critici, “servendosi di un certo carattere infantile del loro cervello”, corrono alla difesa dei principi invocati dalle persone di gusto, e “tenendo nelle strette” i temerari e gli innovatori, riescono a dimostrare ugualmente che anche la natura a volte “si compiace di qualche grande distrazione”. Di conseguenza i critici, dichiara il pittore, “hanno meravigliosamente incoraggiato lo sboccio della mediocrità in tutti i campi”. E aggiunge, sarcastico: “I paperi di tutti i tempi si sono sentiti spuntare le ali vedendo che poi non era così difficile possedere le grandi qualità che i critici compiacenti fabbricavano su misura”. Perché, se da un lato, gli uomini di idee nuove e ardite – ma proprio per questo capaci di disturbare tutto l’edificio delle buone dottrine – erano “duramente rampognati e richiamati all’ordine”, dall’altro, “la comunità dei rimatori e balbuzienti, razza limitata e di vista corta, ma estremamente docile e facile da guidare”, aiutata da queste “regole salutari” camminava quasi senza sforzo sulla vecchia e comoda strada.
In un chiaro riferimento a sé stesso, Delacroix sottolinea che ad un certo momento irrompono sulla scena certi “spiriti turbolenti” che aspirano a mutare il corso delle cose. Essi sono veri e propri “guastafeste”, perché finiscono per “capovolgere le idee che i critici con tanta fatica hanno fatto entrare nella mente del pubblico”. Che succede allora al “disgraziato critico” quanto tutto viene rimesso in discussione? Che fare di tanti compendi ingegnosi, a chi rivolgere le sue recriminazioni sul torrente che straripa? “Ci sono pochi critici – dichiara con forza Delacroix – che hanno il coraggio di tornare sui loro passi e cambiare religione insieme alla folla. Questo subitaneo cambiamento di pelle equivale al suicidio. Essi moriranno nella più riprovevole impenitenza, aggrappandosi disperatamente ai relitti del tempio che crolla, e periranno sotto le rovine, vittime di un principio”.