Gronda ammirazione e commozione l’elogio di Raffaello tessuto da Delacroix. In un suo scritto, pubblicato nel 1830 sulla “Revue de Paris” il pittore francese inanella una serie di giudizi atti a celebrare il genio dell’artista. In qualche passaggio del testo sembra vibrare l’eco di un’enfasi retorica. Ma è solo un’impressione fallace. E’ sincera e profonda, infatti, la lode formulata da Delacroix, onesto e schietto nel sua volontà di divulgare, a beneficio di un pubblico il più vasto possibile, l’inestimabile valore del verbo dell’Urbinate.
“Il nome di Raffaello – scrive Delacroix – evoca alla mente tutto ciò che esiste di più alto nella pittura. Il suo talento sublime, unito a quell’accoppiamento quasi unico dei privilegi dati dalla natura e dalla fortuna, lo hanno posto su un trono dove nessuno lo ha sostituito, e che l’ammirazione dei secoli non ha fatto altro che innalzare maggiormente. Il rispetto per la posterità per questo grande uomo è una specie di culto, ed è forse il solo, tra gli artisti di tutte le epoche, che sia il rappresentante della sua arte”.
Il pittore francese osserva che Raffaello non ha toccato più di altri la perfezione, ma “lui solo ha portato ad una grado così elevato le qualità più avvincenti, capaci di esercitare sugli uomini il più alto potere: il fascino irresistibile del suo stile, una grazia veramente divina che alita ovunque nelle sue opere, velandone i difetti e giustificando ogni ardimento”.
Fin dal momento in cui il suo primo affresco fu compiuto, il successo he ottenne gi valse “un favore universale” che da allora accompagnò tutta la sua opera. La fiducia nel proprio talento “non manca mai ai più modesti”, ma quando il consenso del pubblico non viene in soccorso di questa fede, essa non è che “uno sterile e magro pascolo”. Raffaello potè creare le sue opere senza dover lottare contro la moda e le prevenzioni. “Fortunato pittore!” esclama Delacroix, perché poteva confidare “nella moda quanto nel suo genio”. Il trionfo sui suoi rivali non lo stordì: sempre lo stesso impegno, mai abbassano la guardia.
Alcuni critici hanno rimproverato all’Urbinate di aver “imitato” sia le opere antiche sia taluni contemporanei. In sua difesa, Delacroix sottolinea che è proprio su questa presunta imitazione che si misura il suo straordinario talento, che gli permetteva di stabilire un’impeccabile originalità, derivante dalla sua abilità d “far vivere di vita nuova” tutto ciò che trova lungo il cammino.
Due, secondo Delacroix, furono gli artisti che esercitarono una significativa influenza su Raffaello, ovvero Masaccio e Michelangelo. Del primo il pittore francese ricorda il merito di aver dato al disegno “un carattere di maggiore grandezza”, liberando le sue figure da quelle “pieghe meschine” che, serrate attorno al corpo come fasce, sembravano imprigionarlo piuttosto che rivestirlo. Masaccio scoprì la prospettiva e le sue figure hanno veramente vita e movimento. “Da allora – afferma Delacroix – non fu più possibile il ritorno alla rigidità dei primitivi”.
A Michelangelo, invece, Delacroix indirizza una stoccata, se pur velata, affermando che, secondo il “Divin Artista”, Raffaello “doveva tutto al lungo studio”, ovvero ad una costante applicazione che andava a colmare le lacune di un talento non perfettamente cristallino. Questa valutazione, protesta Delacroix, non è equa, perché in Raffello “tutto è facilità”. Pare che “egli non abbia mai riflettuto un istante prima di eseguire”. Quindi aggiunge: “Perfino la sua tecnica pittorica non sembra sottoposta a nessun calcolo”.
Nel concludere lo scritto, Delacroix evidenzia che Raffaello non è mai banale. “In lui non si trovano mai – rileva – quelle figure cosiddette ‘da affittare’, ovvero quella specie di insipido riempitivo che si riscontra in tanti quadri. Egli ha voluto che nulla rimanesse freddo e inutile, che niente potesse essere distaccato a piacere per essere applicato altrove”. In questo senso va intesa la risposta che Raffaello dette ad un uomo che gli chiedeva con quali mezzi fosse arrivato così in alto. “Non trascurando nulla”, rispose l’Urbinate.