Nonostante nel manifesto, firmato da Tristan Tzara, si dichiari che dada “non significa nulla”, il movimento (nato a Zurigo) ha segnato una fase importante nel panorama culturale del ventesimo secolo. Parafrasando Montale, è lecito che al dadaismo – che privilegiava la “pars destruens” rispetto alla “pars costruens” – si poteva chiedere solo ciò che non era e ciò che non voleva. Infatti l’intenzione di fondo, almeno agli inizi, è stata quella di scardinare gli standard artistici supinamente accettati e di sradicare le stantie convenzioni dell’epoca, dall’estetica pittorica e cinematografica alle ideologie politiche. Dada nacque come ponderata protesta contro la barbarie incarnata dalla prima guerra mondiale, che aveva mortificato la dignità della persona e lacerato i rapporti umani. In questo scenario il dadaismo sentì l’esigenza di ripartire da zero, con l’obiettivo di restituire lustro alle diverse espressioni in cui la cultura si manifesta.
Ma prima di voltare pagina occorreva realizzare “un nichilismo artistico”: ovvero applicare il rasoio di Occam per fare piazza pulita del cascame che aveva inquinato, fino a quel momento, l’arte e la letteratura. L’inclinazione sovversiva del dadaismo trovò terreno fertile in un gruppo di intellettuali che si era rifugiato in Svizzera per sfuggire alla guerra. Oltre a Tzara, spiccano i nomi di Hans Arp, pittore e scultore, e di Marcel Janco, architetto. Il primo luogo deputato ad accogliere le loro performance stravaganti e istrioniche è il Cabaret Voltaire, fondato da Hugo Ball. Le serate al Cabaret Voltaire richiamano quelle organizzate dai futuristi: come è infatti l’intento di stupire lo spettatore attraverso forme originali di arte.
In questo contesto acquista rilievo la grafica, fino ad allora relegata a puro tecnicismo. Grazie ai dadaisti essa svolge un ruolo propositivo e non più comprimario. Tanti sono gli opuscoli e i volantini in cui – anche in virtù di sapienti fotomontaggi – è affidato il compito di veicolare i contenuti cari al movimento dadaista. Sebbene sia stato un movimento sostanzialmente circoscritto nell’area europea, il dadaismo è riuscito ad influenzare alcune esperienze artistiche anche negli Stati Uniti. Ai fruttuosi incontri tra il pittore francese Marcel Duchamp e il pittore e fotografo statunitense Man Ray, e tra il pittore franco-spagnolo Francis Picabia e il gallerista statunitense Alfred Stieglitz, si suole far risalire la nascita del dadaismo americano.
Tra i meriti da ascrivere al dadaismo vi è quello di aver compreso l’importanza delle riviste, intese come strumento di capillare diffusione delle idee, soprattutto quando esse rischiano di non attecchire perché considerate dai benpensanti troppo ardite e controcorrente. Tra queste riviste figuravano “Dada”, fondata a Zurigo nel 1917; “291”, nata a Barcellona nello stesso anno; “Littérature”, che vide la luce a Parigi nel 1919. Tra i maggiori centri propulsori del movimento spicca Berlino, ma con l’inizio dell’ascesa di Hitler tutti gli appartenenti al Dada berlinese si iscrissero al neonato partito comunista, mettendo la loro arte a disposizione della propaganda antinazista. Tuttavia, dopo il 1933, con il cancellierato di Hitler, i dadaisti berlinesi non erano graditi al nuovo regime e di conseguenza furono costretti ad emigrare all’estero.
Il dadaismo come movimento di opposizione dai tratti radicali attirò spesso su di sé giudizi recisi e sarcastici. Non usò certo giri di parole quel critico dell’”American Art News” quando sentenziò che “la filosofia di Dada è la cosa più malata, più paralizzante e più distruttiva che sia stata pensata dal cervello umano”.