Una cupa vena autobiografica attraversa “La fanciulla malata” (1885-1886) di Edvard Munch. Vegliata da una donna che siede alla destra della tela, la ragazza, distesa sul letto, richiama la figura della sorella dell’artista norvegese morta prematuramente, all’età di quindici anni, stroncata dalla tubercolosi. Un lutto, questo, dal quale Munch – come confesserà nel suo diario – non si sarebbe più ripreso. Nel dipinto si riflette la sua volontà di elaborare il drammatico avvenimento in una dimensione, per quanto possibile, positiva: la fanciulla, sebbene minata nella salute, è viva, e quasi sembra che sia lei che accenni un gesto di consolazione a beneficio della donna seduta al suo fianco, affranta dal dolore. Ella è china sul letto, il suo viso è nascosto quasi del tutto, se ne intuisce solo una minima parte, sufficiente, tuttavia, per trasmette un senso di profonda tristezza. Nel diario Munch scrive: “Credo che nessun pittore abbia vissuto il suo tema fino all’ultimo grido di dolore come me quando ho dipinto ‘La bambina malata’. Non ero solo su quella sedia mentre dipingevo, erano seduti con me tutti i miei cari, che su quella sedia, a cominciare da mia madre, inverno dopo inverno, si struggevano nel desiderio del sole, finché la morte venne a prenderli”. Spicca nel dipinto la sobrietà spartana della stanza. C’è un piccolo mobile, di modesta fattura, sul quale è appoggiata una bottiglia accanto ad un piattino. Un bicchiere è posato sulla sedia dipinta in primo piano. L’essenzialità dell’arredamento sembra farsi partecipe della drammaticità della situazione che, comprensibilmente, non ammette fronzoli e lussi velleitari.