E’ opinione corrente che i pittori rivelino il loro carattere più chiaramente nei lavori preparatori e in rapidi schizzi che nelle opere compiute. Questa prospettiva trova una perfetta esemplificazione in Peter Paul Rubens. Alcuni abbozzi permettono di penetrare genio creativo dell’artista fiammingo più di quanto consentano suoi acclamati capolavori. I primi dipinti e i primi disegni, sebbene mostrino un’innata potenza, risultano in qualche modo primitivi, soprattutto se paragonati alle opere dei più illustri pittori di quel tempo, tra i quali spiccano Caravaggio e Annibale Carracci. La resa anatomica e la rappresentazione in scorcio delle figure nei lavori realizzati all’inizio della carriera sono spesso approssimative, al punto da apparire al contempo ampollose e informi. La luce, in questi dipinti, la luce può risultare cruda e violenta: molto marcati sono i contrasti fra le ombre scure e le zone illuminate della tela.
La pratica di “copiare per imparare” era assai diffusa nel mondo dell’arte tanto da divenire, nel tempo, una consolidata tradizione, entro la quale si inscrive anche l’esperienza di Rubens, definito dai critici dell’epoca “un instancabile copista”. E l’atto del “copiare” presto si trasformò per lui in un’ossessione. Mentre gli altri pittori si limitavano a trascrivere, in modo meccanico e didascalico, e da un’unica posizione, quella frontale, le fattezze esteriori di un determinato soggetto, Rubens adottava un metodo analitico. Egli mirava a cogliere l’indole dell’autore del soggetto in questione e a carpire – studiando tale soggetto da diverse posizioni e da differenti distanze – la fonte della magia che lo animava.
Il tratto distintivo del linguaggio pittorico di Rubens è costituito dalla sua eccezionale abilità nel gestire la luce e il colore. All’epoca, nel Seicento, vigeva la teoria secondo cui il disegno doveva limitarsi alle linee e alle ombreggiature, escludendo il colore, mentre la pittura doveva servirsi sia del colore che della luce. In pratica, si contavano numerose eccezioni a questa distinzione. Tuttavia Rubens, in maniera più pronunciata rispetto agli artisti che lo avevano preceduto, lavorò assiduamente affinché venisse dissolta la barriera tra il disegno e la pittura.
Nei disegni amava mischiare i colori, quasi con un intento provocatorio nei riguardi di una tradizione sentita come inerte e stantia. Sono le tonalità di nero, rosso e bianco quelle da lui predilette. La tavolozza impastata di colori, da lui valorizzata con maestria, divenne così strumento per suggerire il modello di una forma tridimensionale. Di questa tecnica è testimonianza il dipinto “Giovane donna che guarda in basso” (1628), realizzato a partire dall’uso di un gesso nero con cui l’artista delinea i contorni delle mani, del vestito, del volto, del collo e dei capelli. Le linee che traccia sembrano come gettate distrattamente sulla tela: al contrario, l’esame minuzioso del dipinto rivela una rigorosa e meticolosa accuratezza. Rubens, dopo il nero, passa ad utilizzare il rosso e il bianco per trattare gli altri “elementi” della tela, dagli zigomi alla fronte della donna. La sintesi dei tre colori conferisce al soggetto un sicuro fascino. Grazie al sano rossore della carnagione, al movimento ondulato dei capelli e allo scintillio degli occhi, il soggetto emana il lucente bagliore della vitalità propria della gioventù.