Gli uomini sono spesso “confortati” e rallegrati” dalla letteratura dozzinale, si lamentava il celebre critico statunitense Edmund Wilson. In questa categoria collocava il genere poliziesco, contro il quale scagliò velenosi strali in un articolo-saggio pubblicato, nel 1944, sul “The New Yorker”.
Così scriveva: I romanzi polizieschi godono di un ingiusto privilegio per l’uso che vieta al recensore di rivelarne la soluzione. Risultato di siffatta abitudine è quello di nascondere la nullità di tanti romanzi polizieschi e di garantire ai loro autori una protezione che agli altri settori letterari è negata”. Wilson, rinomato per la sua scoperta e graffiante causticità sottesa a fulminanti giudizi, si disse “incuriosito” dal montante successo che all’epoca riscuotevano i cosiddetti “gialli” presso un sempre più vasto pubblico di lettori.
Quella poliziesco era un genere che il critico non riuscì mai ad accogliere con favore. Anzi, finì per biasimarlo definendolo un “vizio”, al pari del fumo e dell’alcol, per poi seppellirlo in quanto “completamente morto”.
Tuttavia, al di là di questo manifesta avversione, Wilson – che mai smise le vesti di critico letterario professionista rigoroso e documentato – dedicò al fenomeno uno studio di carattere sociologico. “Nel decennio tra le due guerre – osservava – il giallo ha raggiunto una popolarità senza precedenti, e io credo che in questa tendenza vi sia una profonda ragione. In quegli anni il mondo era oppresso da un diffuso senso di colpa e dallo sgomento di un’imminente catastrofe che sembrava impresa disperata evitare, in quanto appariva decisamente impossibile inchiodare i colpevoli alle loro responsabilità”. Dalla realtà si passava dunque alla finzione. Chi ha commesso il delitto? Verrà scoperto o no? Sono questi gli interrogativi che scuotono “le coscienze del volgo” mentre “il mondo va a scatafascio”.
I suoi detrattori lo accusavano di “snobismo” giudicando egli quello poliziesco un genere “non impegnato”. Così facendo, si mostrava miope perché “certi gialli”, basti a pensare a quelli di Agatha Christie, erano opere di gran pregio (a parte la genialità dell’intreccio) anche sul piano della caratterizzazione psicologica dei personaggi. Una caratterizzazione, questa, tanto incisiva e penetrante nella sua asciutta sobrietà da meritare il credito accordato all’analisi interiore, prerogativa somma dei grandi romanzi dell’Ottocento.
Senza specificare il titolo, Wilson dichiarava: “Confesso che il ‘giallo’ di Agatha Christie mi avvinceva. Non riuscivo a indovinare chi fosse l’assassino e, quando alla fine l’ho saputo, sono rimasto sorpreso. Ciononostante della Christie non m’importa nulla e non ho nessun desiderio di leggere altri suoi libri”. Una presa di posizione “a dir poco discutibile” gli fu contestato, ma fu irremovibile. Wilson non risparmiò poi Rex Stout, il creatore del detective Nero Wolf, criticandolo perché reo di aver adattato le ambientazioni gotiche di sir Arthur Conan Doyle con il suo Sherlock Holmes alla moderna New York. Acuto biasimo riservò anche a Dashiell Hammett, aurore, tra l’altro, del celebre “Il falco maltese”. Secondo Wilson, lo scrittore soffriva di una debole abilità di scrittura” paragonata, in senso spregiativo, a quella dei fumetti pubblicati sui quotidiani di bassa lega.
Questo astio nei confronti del genere poliziesco forse ha origine da una sorta di “trauma infantile”. Aveva dodici anni, infatti, Edmund quando lesse il primo “giallo”, “La macchina pensante” di Jacques Futrelle. Lo giudicò talmente brutto da decidere di non leggere più un altro poliziesco. Oltre che scottato, rimase più o meno fedele al suo fiero proposito.