Quando il “San Francisco News”, nel 1936, pubblicò una serie di articoli per documentare le difficili condizioni di vita di una popolazione che, attratta da offerte di lavoro, – dopo l’esproprio, da parte delle banche, di numerose fattorie – aveva abbandonato il Midwest per raggiungere la California, John Steinbeck ebbe l’illuminazione. Nel breve arco di “cento giorni di lavoro pieno”, come egli stesso teneva a sottolineare, il premio Nobel compose un romanzo, di respiro epico, diretto a formulare una vibrante denuncia sociale in difesa della classe povera, costantemente soggetta a soprusi e angherie. Quel romanzo, intitolato “Furore” (1939), pietra miliare della narrativa americana, lo consacrò nell’empireo letterario e, al contempo, destò controversie e polemiche. Indubbiamente l’opera era risultata “scomoda” per i potenti e i ricchi dell’epoca, accusati di sfruttare, senza scrupolo, i meno abbienti. Essi reagirono contestando numerosi passaggi del libro, inquinato, a loro dire, da mistificazioni e falsità.
Viene narrata l’epopea della trasmigrazione della famiglia Joad, costretta a lasciare la propria fattoria nell’Oklahoma, a bordo di un autocarro. Attraverserà il Texas, il New Messico, l’Arizona, lungo la Route 66, nel tentativo di insediarsi in California, dove mira a ricostruirsi un futuro stabile. Nella famiglia Joad si specchia il destino di altre centinaia di famiglie, anch’esse private dei loro beni e dunque indotte a cercare fortuna altrove. L’ignoto è sempre in agguato per insidiare speranze e sogni. La famiglia Joad, dopo un intrico di vicissitudini, riuscirà a raggiungere la California, ma ne resteranno amaramente delusi. Non è il luogo che avevano bramato, perché anche là la miseria non allenta la presa su di loro: proprio quando alcuni membri del nucleo familiare avevano trovato il sospirato lavoro, si verificherà un’inclemente inondazione, così da rendere drammatica una situazione già critica e fluida.
Prima che scrittore, Steinbeck era un giornalista di cronaca, pieno di talento nell’individuare l’essenza dei fatti e nel renderla con pregnante vigore sulla pagina: talento profuso nella stesura di “Furore”. Sono classici i temi trattati nel romanzo: il dolore, la morte, il senso di colpa, l’anelito al riscatto sociale, il sentimento della giustizia. La sua stagionata e ruvida penna di cronista toglie a questi temi la patina scontata della retorica per inserirli in un contesto agonico dal quale sono rigorosamente bandite svenevoli lamentazioni o stucchevoli geremiadi. Contano solo i fatti, come avrebbe raccomandato Dickens: bastava farli parlare, considerando quanto, nella loro spartana nudità, fossero già eloquenti di per sé. E Steinbeck, da cronista di razza, ha dato loro voce. Una voce stentorea.
Come ha evidenziato l’insigne americanista Luigi Sampietro, le ragioni intime della narrativa di Steinbeck sono “le ragioni del cuore”, ma la sua musa non “entra” nei personaggi. Li osserva e li descrive, sia pure mirabilmente, ma ne resta fuori. Il motore dell’azione non è tanto la coscienza e la volontà del singolo eroe, ma una forza irresistibile che è comune a tutti. E’ una forza che si configura come “una risorsa della specie” e che si manifesta come istinto collettivo: nei momenti critici essa guida la famiglia, la cosiddetta “tribù”, verso la salvezza e la possibile redenzione.
Il romanzo è cadenzato da passaggi di crudo realismo. “Gli affamati – scrive Steinbeck – arrivano con le reticelle per ripescare le patate buttate nel fiume, ma le guardie li ricacciano indietro; arrivano con i catorci sferraglianti per raccattare le arance al macero, ma le trovano zuppe di kerosene. Allora restano immobili a guardare le patate trascinate dalla corrente, ad ascoltare gli strilli di malati sgozzati nei fossi e ricoperti di calce viva”. Su tali icastiche descrizioni, condotte nel segno del più pronunciato pragmatismo, comunque aleggia sempre una sorta di afflato primigenio che finisce per conferire alla dimensione della quotidianità spicciola l’aura di un pensiero epocale. La filosofia della sopravvivenza che nutre di sé la famiglia Joad (e tante altre famiglie che versano nello stesso stato) fa di questi mai domi diseredati gli eredi del popolo dell’Esodo, ed essi così assurgono a simbolo di una condizione universale, al contempo fattuale e trascendente, felice sintesi di realtà e mito.