La vera filosofia rappresenta sempre uno sgambetto alle certezze, soprattutto a quelle più consolidate o supinamente accettate. E quanto più lo sgambetto è deciso, tanto più radicale risulterà la rivoluzione del pensiero. S’impone dunque come un paradosso il fatto che questo scenario sia stato configurato dai massimi filosofi che nella passeggiata – quella lineare, fluida e senza intoppi – riconoscevano lo strumento migliore sia per alleggerire il peso di arrovellate riflessioni sia per favorirne di nuove, una volta sgombrata la mente (grazie appunto a una corroborante deambulazione) dai cascami di meditazioni logoranti. Da Rousseau a Nietzche, da Kierkegaard a Kant, la passeggiata ha svolto un ruolo nevralgico nel contribuire a sciogliere nodi speculativi intricati e a far librare ancor più in alto menti già eccelse. “Senza le mie regolari passeggiate alle otto della sera non avrebbero visto la luce né la “Critica della ragion pura” né la “Critica della ragion pratica”, o comunque non avrebbero avuto la profondità che invece hanno ora”, soleva dire Kant, il quale attendeva a questo rituale con il suo inseparabile bastone. E non avrebbe certo apprezzato le bellezze della natura Rousseau se non avesse dedicato parte della sua giornata a deambulazioni apparentemente senza meta, ma dirette in realtà ad acuire la percezione dei sensi. Del resto sia i peripatetici che i sofisti non potevano fare a meno della passeggiata: i primi attingevano al sapere di Aristotele standogli al passo poiché, leggenda narra, lo Stagirita dispensava precetti e insegnamenti camminando su e giù; i secondi usavano prendere a braccetto i propri discepoli erudendoli sulle varie conoscenze filosofiche conformandosi a un programma quotidiano di studio che prevedeva, tassativamente, almeno mille passi.