Era un ometto smilzo e piccolo di statura Marsilio Ficino. Soffriva continuamente dei tipici disturbi degli ipocondriaci e al minimo dolore, oltremodo allarmato, correva a letto e si rifugiava sotto le coperte. A prima vista, o comunque sulla base di una sporadica frequentazione, non destava nel prossimo una seducente impressione: timidezza e laconicità non erano certo i migliori alleati per far brillare il suo eccezionale ingegno.
Un ingegno che lo rese uno degli umanisti più influenti del primo Rinascimento. Un ingegno che servì a fondare l’Accademia fiorentina – un nobile tentativo di far rivivere l’Accademica di Platone – la quale determinò significative ripercussioni sullo sviluppo della cultura europea dell’epoca. In proficuo contatto con i maggiori accademici del suo tempo, fu seguace del neoplatonismo e fu il primo traduttore delle opere complete di Platone in latino, la cui dottrina considerava propedeutica alla fede cristiana.
Grazie ad uno studio paziente e appassionato, Ficino era diventato un’enciclopedia vivente: aveva esplorato il corpus della sapienza egiziana e aveva divorato le opere di pensatori e mistici, da Aristotele agli Alessandrini, dai seguaci di Confucio a quelli di Zoroastro. Nella sua villa di Careggi, governata dalle sue nipoti, teneva una lampada sempre accesa davanti ad un busto di Platone, che avrebbe voluto vedere canonizzato come il prediletto discepolo di Cristo: atto di eresia e di lesa verità storica per il quale la Chiesa di Roma era stata quasi sul punto di scomunicarlo (come ricorda Irving Stone ne “Il tormento e l’estasi. Il romanzo di Michelangelo”). Allo zio le nipoti erano particolarmente affezionate, e nutrivano un’altissima stima per la sua imponente cultura: tuttavia dovevano ammettere che egli sapeva sì recitare a memoria un intero dialogo di Platone, ma non riusciva mai a ricordare dove aveva lasciato le pantofole.
