L’espressione “genio enciclopedico” è diventata nel tempo assai inflazionata, usata anche a sproposito per indicare competenze, o presunte tali, di personalità il cui sapere non si esaurirebbe in un unico paradigma di riferimento. Ma vi sono state menti che, invece, incarnano perfettamente il simbolo di una prodigiosa culturale in grado di abbracciare lo scibile grazie ad un multiforme ingegno. Il tedesco di origine serba Gottfried von Leibniz (1646-1716) fu una di queste menti. Egli si sottrae ad una categorizzazione unica. Anzi ne vale, a pieno titolo, tante: matematico, filosofo, teologo, diplomatico, giurista, storico, magistrato.
Non a caso, dunque, il libro curato da Massimo Mori s’intitola “Leibniz e la cultura enciclopedica. Il volume ha anzitutto il merito di sgombrare il campo da un possibile equivoco. Studioso ancorato alla cultura del Seicento, Leibniz – sottolinea il curatore, presidente dell’Accademia della scienza di Torino – è ben lontano dalla concezione dell’enciclopedia che avranno, a metà del Settecento, Diderot e d’Alambert. Egli non ha la pretesa di fare una ricognizione esauriente dei risultati ottenuti nei diversi saperi: semmai la sua concezione è più vicina a quella dell’”Instauratio magna” di Bacone, in cui la comparazione dei risultati conseguiti nelle differenti discipline doveva servire allo studioso come strumento metodologico per aprirsi a ulteriori scoperte.
“La prospettiva enciclopedia di Leibniz – scrive Mori – ha una motivazione più ampia, che affonda le radici nella sua impostazione filosofica generale”. Egli muove dalla convinzione della sostanziale unità di tutte le cose. Sul piano del metodo questo assunto lo induce a ricercare sempre nuove modalità di “reductio ad unum”. Sul versante metafisico, l’unità del reale si esprime nella relazione tra le cose che esalta le loro condizioni di compatibilità reciproca. Ne consegue un’armonia delle singole realtà fra di loro e nel rapporto con il tutto. La prospettiva enciclopedica si risolve pertanto in un atteggiamento di apertura culturale di suggestiva modernità, come pure nella consapevolezza che la verità altro non è che un poliedro con un numero inesauribile di superfici.
Questo spirito di tolleranza, sia sul piano scientifico che su quello pratico, costituisce uno dei maggiori retaggi che il pensatore ha lasciato alla posterità. Il curatore del libro, in cui indagine filosofica e analisi storica si muovono in perfetta sincronia, evidenzia che se da un lato Leibniz è uno dei campioni della modernità insieme a Bacone, Cartesio e Galilei, dall’altro egli si rivela rispetto ad essi molto più legato all’epoca in cui visse. In confronto a Cartesio e a Galilei, Leibniz è più permeato della cultura aristotelica e scolastica. In questo scenario svolge un ruolo importante la teologia, o meglio, la religione, dalla quale – evidenzia Mori – non si può prescindere se si vogliono analizzare i tanti e complessi aspetti dell’opera leibniziana. Un robusto afflato spirituale, infatti, percorre il suo pensiero, fino a costituirne il fiore all’occhiello.
