In una fredda e nebbiosa mattina – era il 15 ottobre 1917 – ebbe luogo l’esecuzione, a Vincennes, della danzatrice Mata Hari, ben più nota come agente segreto olandese. Fu condannata alla pena capitale per la sua attività di spionaggio durante la prima guerra mondiale. Riuscì a tenere in scacco, attraverso un doppio gioco che richiamava le acrobazie legate al suo cristallino talento di danzatrice, le cancellerie di mezza Europa: le davano la caccia, contemporaneamente, il controspionaggio inglese e francese mentre i servizi segreti tedeschi e russi, che da principio l’avevano presa sotto la loro ala, decisero successivamente di tradirla. Quando, esauriti trucchi e sotterfugi, non potè sottrarsi alla cattura (avvenuta nella sua camera d’albergo, a Parigi) Mata Hari distribuì, senza scomporsi, cioccolatini agli ufficiali venuti ad arrestarla. Fu quindi rinchiusa nel carcere di Saint-Lazare. Contro di lei c’erano innumerevoli indizi, atti ad incriminarla, ma nessuna prova: il suo genio in qualità di spia non aveva certo disseminato indelebili tracce che potessero poi inchiodarla. Eppure il processo, a porte chiuse, finì per emettere la sentenza di condanna a morte, per fucilazione. All’alba di quel 15 ottobre, nella sua cella si presentò il capitano Thibaud: veniva a informarla che la domanda di grazia era stata respinta. La invitava dunque a prepararsi all’esecuzione. Mata Hari era odiata da suoi nemici, ma anche profondamente rispettata. Un rispetto che si manifestò nell’inedita decisione – contraria a una prassi radicata e collaudata – di lasciare lenta la corda, intorno ai polsi, che la legavano al palo dell’esecuzione. Mata Hari se ne accorse e prima che venissero sparati i dodici proiettili (solo quattro la colpirono) lanciò baci ai suoi carnefici.