L’elemento autobiografico, talora velato, spesso pronunciato, ha caratterizzato la narrativa di Alice Munro. Villaggi e fattorie della provincia canadese dell’Ontario, dove viveva, fanno da sfondo (e, in certi casi, sono protagonisti) alle sue storie, incentrati su precisi temi: il conflitto morale in cui si scatena la velenosa rivalità tra il bene e il male; il desiderio, nell’ambito non solo dell’amore, ma anche dell’amicizia sentita come vincolo indissolubile e al contempo vulnerabile; l’insoddisfazione, dall’effetto corrosivo, nel vedere irrealizzati i propri sogni; la vecchiaia concepita come un ingrato e gravoso peso se offesa da chi non sa apprezzare i tesori di esperienza e di saggezza che racchiude.
Le opere della Munro, premio Nobel per la letteratura nel 2013, sono una “sintesi”, scrive il New York Times, di gente ordinaria e di storie eccezionali. All’inizio della sua carriera, ella non era convinta del suo talento, tanto che, per sua stessa ammissione, aveva deciso di limitarsi a scrivere storie brevi, non ritenendosi all’altezza di misurarsi con il cimento di un vero e proprio romanzo. Era come se la capacità di narrazione non possedesse il “fiato” e la “resistenza” richieste da una trattazione dall’architettura complessa e ed intricata. Ma quello che avrebbe dovuto essere un ripiego, finì per rivelarsi una sorta di epifania: proprio quelle storie brevi erano infatti “lunghe abbastanza” per manifestare, già nel suo pieno rigoglio, il valore di una grande scrittrice, stimata e riverita, all’unanimità, nel panorama letterario internazionale. Molto significativa, in merito, è la motivazione dell’assegnazione del Nobel, che elogia il suo ruolo in qualità di “maestra del racconto breve contemporaneo”. E pensare, appunto, che il racconto breve fu da le concepito come un timido tentativo di affacciarsi sulla scena letteraria, dominata da romanzi spesso ponderosi e verbosi. Nel 2009 le era stato conferito il Man Booker International Prize quale premio alla carriera.
Il suo talento, sottolinea il New York Times, era pari a quello di Katherine Anne Porte e di Raymond Carver, anch’essi capaci di crearsi un’alta reputazione attraverso la costruzione di storie brevi. Quelle della Munro sono focalizzate sullo studio della psicologia delle donne nelle diverse fasi di un processo che le vede alle prese con le fatiche della quotidianità, in cui slanci e ripensamenti, ardori e delusioni convergono per ordire un tessuto di incandescente umanità.
La prima raccolta di racconti, “La danza delle ombre felici”, uscì nel 1968 e incontrò subito il favore della critica. Quello stesso anno vince il Governor General’s Award, allora il più ambito premio letterario canadese: tale riconoscimento le fu conferito per altre due volte. Alice Munro ha pubblicato sedici raccolte di racconti, di cui molti pubblicati su prestigiose riviste, dal New Yorker al The Paris Review. Tra queste raccolte (tradotte in italiano per la casa editrice Einaudi) figurano “La vita delle ragazze e delle donne” (1971), “Chi ti credi di essere?” (1978), “Il sogno di mia madre” (1998), “Troppa felicità” (2009).
E’ sorvegliata la scrittura della Munro, apparentemente semplice. Ma solo in apparenza, appunto. Perché, come si addice ai grandi della letteratura, quella semplicità tradisce un labor limae di chiaro stampo oraziano, espressione di un lavoro paziente, capillare, rigoroso, esercitato su ogni singola parola. Non a caso, nei suoi racconti “ogni parola è calibrata, nessuna parola è mai sprecata”. Ma è la struttura narrativa a rappresentare il fiore all’occhiello perché la Munro, pur nello spazio breve di un racconto, ha saputo scardinare il tradizionale e collaudato protocollo temporale. La scrittrice non dà per scontato il presente, e spesso gioca nell’intrecciare passato e futuro, nel segno di una sperimentazione non fine a sé stessa, ma funzionale ad un’analisi incisiva ed illuminante dell’animo umano, in particolare di quello femminile.
Una tale impostazione richiama la dimensione narrativa di Virginia Woolf e di Henry James, artefici dello stream of consciousness e promotori di un sovvertimento della gerarchia temporale, in favore di una “rivoluzione” del linguaggio e dell’analisi psicologica diretta a sondare i recessi di quell’io che spezza i freni inibitori e si concede lunghe confessioni sui misteri che avvolgono la propria interiorità. Lungo questo solco si inserisce, a pieno titolo, Alice Munro che per imporsi nel mondo della letteratura ha dovuto vincere la sua profonda timidezza. Nel domarla, ha aperto il suo animo, viatico, questo, per poi scandagliare – con effetti potenti e illuminanti – quello altrui.
