E’ vissuta all’ombra della fama delle due sorelle, Charlotte ed Emily Bronte: a lei, Anne, finché fu in vita (morì di tubercolosi, all’età di 29 anni, nel 1849) fu concesso solo uno spiraglio di luce. La posterità ha poi avuto agio di apprezzare il carattere profetico della sua narrativa – compresa nei due romanzi “Agnes Grey” (1847) e “La signora di Wildfell Hall (1848) – avendo ella denunciato i maltrattamenti subiti dalle donne anzitutto entro le mura domestiche, la piaga dell’alcolismo, nonché la tendenza della società a “viziare”, con smodata indulgenza, i bambini e i giovani dell’età vittoriana. Per quell’epoca puntare il dito contro questi fenomeni significava avere grande coraggio e ferreo proposito: dotata di entrambi, Anne, dalla zona d’ombra alla quale era stata confinata, riuscì dunque a fare luce su precise problematiche che nel corso della storia avrebbero continuato ad alimentare la narrativa inglese, e non solo.
“Agnes Grey” è basato in larga misura sulle esperienze dell’autrice, tanto che la critica è propensa a giudicarlo un romanzo spiccatamente autobiografico. Certo è che in alcune frasi è dato di riscontrare una categorica definizione del temperamento della stessa Anne. “Agnes – scrive – aveva sempre una sua opinione su ogni argomento e non la cambiava”. E tale opinione, va sottolineato, andava spesso controcorrente rispetto al sentire limitato, circospetto e timoroso dell’epoca. Il romanzo narra la vicenda di una giovane istitutrice che lascia la casa paterna spinta, più che dalla necessità economica, dal desiderio di conoscere il mondo e di dare prova di sé. Il dipanarsi delle vicende finisce per consegnare una figura che risulta essere di sorprendente modernità nella piena consapevolezza che mostra riguardo alle dinamiche e alle insidie della società, nell’implacabile lucidità con cui stigmatizza mali e storture, come pure nell’ironia, al contempo garbata e caustica, con la quale smaschera debolezze e ipocrisie. Non manca, in conformità ai gusti del tempo, la storia d’amore, raccontata con efficace ed accattivante sobrietà, senza ricorrere ad una logora retorica fatta di sussulti scomposti e lacrimevoli cedimenti.
L’opera spicca per il grande rispetto che Anne dimostra nei riguardi della parola, sempre usata con sapiente frugalità. Non c’è pagina in cui una frase risulta superflua. L’autrice pratica una spartana economia narrativa che fa dello stile spoglio un cardine del suo pensiero. Caratteristica, questa, che assume un rilievo ancor più significativo considerando che all’epoca si riscontrava la tendenza a produrre romanzi verbosi, in cui l’utilizzo sbrigliato e poco sorvegliato della parola finiva per rendere le opere pesanti, se non addirittura indigeste. E’ significativo, al riguardo, il costante riferimento al lettore da parte della scrittrice. Un riferimento che tradisce il suo timore di tediarli con fronzoli e smancerie. “Non annoierò i miei lettori descrivendo la mia partenza da casa in quella buia mattina d’inverno” scrive. In un altro passo si legge, in merito al fatto che il signor Weston, da lei amato, si è ricordato di prendere i giacinti, cioè un particolare semplicemente mondano: “Ebbene, che cosa c’è di notevole in tutto questo? Perché l’ho raccontato? Perché era tanto importante da farmi passare una serata lieta, una notte di sogni gradevoli e una mattina di felici speranze. Vuota letizia, sciocchi sogni, speranze infondate, diranno i lettori”. Questa prospettiva porta a riconoscere nella narrativa della Bronte una duplice posizione: quella matura e decisa, di giudice severo del mondo, e quella più fragile, e nobilmente umile, di creatura che guarda all’opinione del lettore con tremante impazienza e sottile disagio.
“Una formidabile storia d’amore e di speranza, oppressione, peccato e tradimento”: così il “Daily Mail” definisce “La signora di Wildfell Hall”, che racconta la storia – attraverso l’impostazione epistolare – della “misteriosa” Helen Graham, in fuga, insieme al figlio, da un matrimonio infelice. Agente letterario di Anne, la sorella Charlotte impedì la ripubblicazione del romanzo perché giudicava “sbagliatissimo” lo spunto narrativo. Al suo primo apparire, l’opera, deviando manifestamente dal codice letterario dell’epoca, riscosse un forte interesse, tramato di frizzante curiosità, da parte della critica e del pubblico. Superate le resistenze di Charlotte, il romanzo fu ripubblicato solo nel 1854.
La figura del “cattivo” è impersonata dal marito di Helen, uomo dedito all’alcol e dalla vita dissipata, vissuta in uno scenario dominato da un’aristocrazia languida e senza nerbo. Dal canto suo, Helen, in netto contrasto con le rigide norme del primo Ottocento, osa intraprendere la carriera di artista e si guadagna da vivere vendendo i suoi quadri. Questo ardito anticonformismo finisce per relegarla in una cupa solitudine che farà di lei un’emarginata dalla società. Nel divario che si apre e si sviluppa tra Helen e il marito trova eloquente espressione il pensiero “rivoluzionario” di Anne, la quale esalta, da un lato, il coraggio della protagonista a sfidare regole vessatorie e mortificanti a discapito delle donne; dall’altro, sferza la deprimente mediocrità di un mondo che si nutre di false apparenze e che è pronto a scagliarsi contro chiunque miri a infrangerle.
“Quando Anne ha chiuso la porta della camera da letto di Helen Graham, a simboleggiare l’atto della moglie che ripudia il marito, l’ha chiusa in faccia alla società e a tutti i moralismi e le convenzioni esistenti”, dichiarò la scrittrice May Sinclair, portavoce della Woman Writers’ Suffrage. Non poteva essere reso un omaggio più incisivo e più arguto alla natura e al valore della narrativa di Anne Bronte.
