Wyastan Hugh Auden non era soddisfatto di alcuni versi di “Primo settembre 1939”, la poesia scritta nel giorno in cui in Europa – con l’invasione tedesca della Polonia – iniziò la seconda guerra mondiale. Di conseguenza il poeta inglese aveva intenzione di non includerla in nessuna raccolta antologica. Ma quei novantanove versi erano destinati, in realtà, ad avere un impatto più forte e un successo più grande di quanto l’autore si aspettasse. Il componimento ora compare nella raccolta “At other time”. La poesia – un grido d’allarme e un severo monito alla coscienza collettiva nell’imminenza di eventi che, nell’iniquo intreccio di lutti e devastazioni, avrebbero sconvolto il mondo – fu composta quando Auden si era da poco stabilito negli Stati Uniti. La sua partenza aveva causato astio e scalpore in Inghilterra perché venne intesa come un atto di diserzione, a scapito del proprio Paese, nell’ora del pericolo.
Vestendo i panni di Cassandra, Auden già da una decina di anni aveva messo in guardia, anche attraverso interventi pubblici e conferenze internazionali, circa “le velenose insidie” che avrebbero potuto ulteriormente minare i precari equilibri tra le potenze mondiali. Ma il suo avvertimento rimase inascoltato. In questo scenario “Primo settembre 1939” si configura sia come una denuncia del male che si stava abbattendo sul vecchio Continente, e non solo; sia come una rabbiosa constatazione della cecità e della sordità delle istituzioni e dell’opinione pubblica, incapaci di prevedere il peggio e quindi di operare, con decisivo anticipo, per il meglio.
“Sono seduto in una delle bettole di Fifty-second Street, incerto e spaventato, mentre scadono le speranze di un basso decennio disonesto”: l’incipit è già un compiuto manifesto del pensiero e della sensibilità di Auden che, mentre sferza le brutture della società, confessa la sua personale vulnerabilità. La letale fusione di incertezza e spavento pongono il poeta sul ciglio del baratro, e il timore di precipitare, senza la possibilità di risalire, è soverchiante.
Nel sottolineare il fatto che il suo grido d’allarme è stato ignorato, Auden fa riferimento all’”esule Tucidide”, il quale aveva fatto pronunciare a Pericle “il più straziante discorso sulla democrazia che possiate leggere, come scrisse il poeta e saggista Iosif Brodskij (premio Nobel) nel saggio “Il canto del pendolo”. Mentre stava componendo la poesia, Auden era immerso nella rilettura de “La guerra del Peloponneso”, ovvero la guerra che segnò la fine di quella che si conosce come la Grecia classica. Il cambiamento determinato da tale conflitto fu radicale, poiché decretò la “morte” di Atene e di tutto ciò che Atene rappresentava. Auden riconosce in quegli accadimenti un riflesso, o meglio una premonizione, di quanto l’imminente guerra provocherà: la fine dell’Europa tradizionalmente intesa come “famiglia di popoli”, cui si accompagna il tramonto della liberà e l’instaurazione della dittatura. A tale riguardo illuminanti sono questi versi: “Nessuno esiste da solo; dobbiamo amarci l’un l’altro o morire”. All’ampio respiro della polis subentra il cupo soffocamento dell’individualismo. Il sentimento della collettività viene sostituito dall’arroganza dell’egocentrismo. Auden si identifica con Tucidide, ma è dato di constatare una differenza fondamentale: lo storico ateniese parla con il senno di poi, Auden gioca d’anticipo, prevedendo quanto di nefasto sta per accadere.
Alla poesia in quanto genere letterario Auden non riconosce un potere maieutico. Nel componimento “In memoria di W. B. Yeats” scrive: “La poesia non crea nulla”. Ma in tale perentoria sentenza si avverte in filigrana il fremito del poeta a propendere per la verità opposta. Così, quando nella chiusa di “Primo settembre 1939” parla di “negazione e disperazione”, egli lancia la coraggiosa sfida per superare questa dimensione nichilista e auspica di mostrare “una fiamma affermativa”.
L’ultima sezione del componimento è introdotta dall’espressione “May I” (che io possa); un’espressione che tradisce una sua volontà di preghiera, lui che – per sua stessa ammissione – “barcollava” tra ateismo, deismo, bisogno di credere in qualcosa di inafferrabile e di misterioso. “Che io possa mostrare una fiamma affermativa”: altro che poesia incapace di costruire qualcosa, sebbene effimera. Il lirismo, sotteso a questa forma di preghiera, lungi dall’evaporare nel sentimentalismo, si traduce al contrario nel valore di un impegno sociale e civile.
Come Leopardi, che mirava a distruggere false credenze e falsi miti, e in tale processo di smantellamento gettava i semi della ricostruzione, Auden – nella corrosiva opera di demistificazione – pone le basi di una possibile rinascita. Ecco allora che alla fine della poesia, scritta all’inizio della seconda guerra mondiale, in cui domina il concetto di negazione, si assiste ad una repentina inversione di marcia, e il componimento si chiude con quella “fiamma affermativa”, ovvero con quella volontà di accendere – proprio attraverso lo strumento della poesia – una luce nel buio, così da poter sperare in qualcosa di buono e di bello. Nonostante tutto.
