Era capace di stare seduto al tavolo di lavoro per più di quattordici ore al giorno, stoicamente piegato sulla congerie di fogli vergati dalla sua scattante mano, ma non poteva fare a meno, Balzac, – secondo un consolidato rituale quotidiano – della passeggiata. Tale esercizio gli consentiva di unire l’utile al dilettevole, poiché da un lato, come egli stesso ebbe a scrivere, aveva la possibilità di “far rifiatare le spossate membra”; dall’altro, poteva gettare uno sguardo, vivido e penetrante, alla folla per trarre materiale da fondere nella sua “commedia umana”. A questo rituale Balzac pensò poi di dare un’ufficiale veste letteraria componendo un breve saggio dal titolo “Teoria del camminare”. L’opera conferisce sommo lustro all’atto della passeggiata perché, nella concezione di Balzac, essa diventa funzionale all’economia della sua narrativa, e finisce per svolgere un ruolo nevralgico nella dimensione realista in cui tale narrativa si sviluppa e opera.
Camminare (talvolta Balzac inciampa a causa della sua possente mole, ma ciò non turba la sua visuale e la sua ricognizione, talvolta si siede su una panchina per riprendere le sue “sfilacciate” forze) significa creare le condizioni per scrutare e indagare i meandri della folla e procedere alla catalogazione dei diversi tipi umani che la compongono. Camminare, dunque, significa anche saper distinguere “l’artista dal cortigiano, l’adultero dallo spione”. L’accumulo disordinato ma sicuramente prezioso di tante impressioni e sensazioni, determinato dal cadenzare un passo dopo l’altro, permetterà al prolifico e vulcanico Balzac di descrivere scene di vita parigina, tessere insostituibili di quel “mosaico del mondo” da lui composto con impareggiabile maestria.
Scrive Balzac nel saggio: “La camminata è la fisionomia del corpo. Non fa paura pensare che un acuto osservatore sia in grado di percepire un vizio, un rimorso o una malattia solo guardando un uomo in movimento? Quanta ricchezza di linguaggio si può trovare in tali effetti immediati di una volontà inconsapevole”. Lo scrittore afferma che anche un fugace brivido sulle labbra può denunciare l’”atto finale e terribile” di un dramma per lungo tempo tenuto nascosto tra due cuori. E poiché per lui “lo sguardo, la voce, il respiro e la camminata sono identici”, ne consegue che anche il semplice e canonico “fare quattro passi” equivale, per uno scrittore vigile e arguto, a un serio metodo di lavoro. Pure una passeggiata può dunque rivelarsi un utile strumento per conoscere “l’uomo nella sua interezza”.
Nel saggio poi Balzac racconta un aneddoto che si riferisce al racconto fatto da Mercy d’Argenteau, “ambasciatore del secolo scorso”. Dal racconto si evince che la principessa di Hesse-Damrstadt aveva condotto le sue tre figlie dall’imperatrice affinché costei scegliesse tra loro una moglie per il granduca. L’imperatrice indicò immediatamente la seconda, senza aver rivolto la parola a nessuna delle tre. La principessa, stupita, le chiese il motivo di un simile giudizio. L’imperatrice rispose che mentre scendevano dalla carrozza, aveva osservato attentamente le tre fanciulle dalla sua finestra. La più grande era inciampata, la seconda era scesa con naturalezza, la terza aveva oltrepassato il predellino. La prima deve essere “goffa” e la terza “distratta”, dichiarò l’imperatrice. Sulla seconda, dunque, cadde la scelta. Tra le pieghe di un movimento, dall’angolazione di un braccio e dal fruscio di una veste il genio di Balzac sapeva cogliere il quid che gli permetteva di innescare anche le descrizioni più complesse: in questo cimento egli trovava nella passeggiata un alleato fedele.
