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Fino ad allora Italo Calvino aveva redatto una silloge di testi sparsi. Quando ricevette l’incarico, dalla Harvard University, di tenere conferenze per l’anno accademico 1985-1986, lo scrittore cambiò prospettiva e realizzò, per la prima volta, un’opera saggistica organica: le cosiddette “Lezioni americane”. Delle sei previste, solo cinque sono state portate a termine (a causa della morte di Calvino). La prima edizione postuma dell’opera uscì in inglese. Ogni lezione prende spunto da un valore della letteratura che il saggista considerava “un fondamento culturale” per il nuovo millennio. Tali valori si identificano nella leggerezza, nella rapidità, nell’esattezza, nella visibilità, nella molteplicità e nella coerenza (solo progettata)
Nell’introdurre il tema della leggerezza, Calvino dichiarava: “Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro. Proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso”. Calvino confessava di aver cercato di togliere progressivamente peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città. Ma soprattutto ha mirato a togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio. Facendo riferimento all’”Insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera, sottolineava che questo romanzo dimostra come nella vita “tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggere non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile”. Ma Calvino non suggerisce di sottrarsi alla materialità del reale rifugiandosi in una dimensione surreale od onirica. Si tratta, piuttosto, di sperimentare il fatto esistenziale con quel distacco catartico riscontrabile nel “De rerum natura” di Lucrezio, ovvero “la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo”.
Per rapidità non s’intende, necessariamente, velocità: essa s’identifica nel saper gestire il ritmo della narrazione. Tale abilità o, meglio, tale arte arride a Sheherazade che ne “Le mille e una notte” riesce, grazie ad essa, a salvarsi la vita perché sa incatenare una storia all’altra e sa interrompersi al momento giusto. Insomma, una doppia operazione sulla continuità e discontinuità del tempo. Quanto è importante la rapidità, quindi il ritmo – esclama Calvino – nel raccontare una barzelletta! “A tutti è nota – rileva – la sensazione di disagio che si prova quando qualcuno pretende di dire una barzelletta senza esserne capace, sbagliando gli effetti, cioè le concatenazioni e i ritmi”. Si fa sferzante il tono di Calvino nell’analizzare le dinamiche legate all’esattezza. “Mi sembra – osserva – che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato. Ne provo un fastidio intollerabile”. Egli denuncia “una peste del linguaggio” che porta all’adozione di formule stilistiche generiche, anonime ed astratte. Il risultato che ne consegue si manifesta nel diluire i significati, nello smussare le punte espressive, come pure nello “spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”.
Uno scrittore vive di immagini e per le immagini e, di conseguenza, il valore della visibilità riveste un’importanza nevralgica. Calvino pone tale interrogativo: l’immaginazione va intesa come strumento di conoscenza o come identificazione con l’anima del mondo? “Sarei – affermava – una fautore della prima tendenza, perché il racconto è per me unificazione di una logica spontanea delle immagini e di un disegno condotto secondo un’intenzione razionale”. Ma nello stesso tempo Calvino dichiara di aver sempre cercato nell’immaginazione “un mezzo per raggiungere una conoscenza extraindividuale, extrasoggettiva”. Dunque sarebbe “giusto” – conclude – che “mi dichiarassi più vicino alla seconda posizione”. Insomma, l’interrogativo non viene sciolto.
Nel trattare la molteplicità Calvino non poteva non citare Carlo Emilio Gadda che nel “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” esprime con inesausta vigoria la sua tensione a rappresentare il mondo come un “garbuglio”, un “groviglio”, un “gomitolo”. Gadda è riuscito, con la sua prosa scattante e nervosa, a rendere in modo esemplare la “molteplicità” del mondo, a rendere in modo icastico la sua “inestricabile complessità” e a cristallizzare “la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento”.