Non solo narratore brillante ed arguto, ma anche saggista, perspicace e illuminante. Italo Calvino, uno dei più illustri intellettuali del secondo Novecento, era stato soprannominato “lo scoiattolo della penna” per rimarcare la sua vertiginosa velocità di esecuzione: con quella penna ha vergato pagine di critica letteraria di eccellente qualità, riscontrabile, con vigorosa evidenza, anzitutto nelle celebri “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio” (le avrebbe dovute tenere all’Università di Harvard per l’anno accademico 1985-1986, ma ne fu impedito dalla morte improvvisa).
La sua vena di critico letterario pulsa con ritmo serrato anche nell’analisi della natura e della storia del romanzo: un’analisi che è felice sintesi di competenza culturale e umana sensibilità. Nel rivisitare alcuni passaggi di “Guerra e pace” di Tolstoj, Calvino si sofferma sull’episodio in cui il principe Andrej si trova, nel contesto della battaglia di Borodino, tra i feriti in un posto di medicazione. Il protagonista si chiede: “Perché mi rincresce tanto staccarmi dalla vita?”. Poi sentenzia: “ C’era qualcosa in questa vita che non capivo e non capisco”.
A sua volta Calvino si chiede che cosa c’è in queste affermazioni, di lapidaria incisività, che “tanto affascina”. C’è un uomo, rileva, con la sua coscienza di sé, della finitezza della sua esistenza, come pure c’è la natura come “simbolo di vita ultraindividuale che c’è stata e ci sarà anche dopo di noi”. Come pure c’è la storia, il suo trascorrere, il suo cercare un senso, il suo essere intessuta delle “nostre vite individuali nelle quali continuamente entra a far parte”.
Individuo, natura, storia: nel rapporto fra questi elementi consiste quella che è lecito chiamare “l’epica moderna”. Il grande romanzo dell’Ottocento inaugura questo “discorso” e la narrativa del Novecento, “nelle sue forme più convulse e spigolose”, lo continua. L’epica antica raccontava il primo atto dell’uomo per uscire dal caos dell’indistinto, la lotta contro una natura vergine, “ancora popolata di mostri”, una natura amica o nemica, a seconda se in essa si manifesta l’aiuto degli dei favorevoli o l’ostilità degli dei avversi. Anche l’urto contro gli altri uomini, le battaglie – rileva Calvino – non sono che “espressioni terrestri di dissidi divini”. Tuttavia la materia del racconto (i duelli degli eroi, i loro avventurosi itinerari) è tutta umana, si svolge secondo le leggi della terra.
L’epica moderna, invece, non conosce più dei. L’uomo è solo, e ha di fronte la natura e la storia. “E se a questo punto – sottolinea il saggista – viene facile dire che natura e storia sono gli dei del mondo moderno, rinnovate incarnazioni delle antiche divinità, possiamo subito ribattere che questa divinizzazione s’incontra più agevolmente nelle pagine dei filosofi che in quelle degli scrittori”. I grandi romanzi sembra che nascano puntualmente apposta per “correggere le idolatrie” tentate dalla filosofia, in modo da guardarle con l’occhio “critico e relativo” dell’uomo che non si considera più il centro dell’universo.
Il romanzo dell’Ottocento non poteva certo nascere senza avere dietro le spalle il lavoro dei filosofi del Settecento, che avevano fondato una nuova nozione dell’animo, una nuova visione della natura e una nuova coscienza della storia. “Ma è pur vero – evidenzia Calvino – che la generazione postnapoleonica che inaugura, con Stendhal e con Puskin, il nuovo romanzo, già dissolve la provvidenzialità della natura di Rousseau e quella della storia del nascente storicismo per campire su uno scenario naturale e storico che è solo teatro di occasioni per l’individuo, eroe per nulla esemplare nella complessità delle sue passioni, nella forte carica vitale del suo egotismo”. Un egotismo che in Puskin è fondato sulla sincerità e sull’essere sé stesso, in Stendhal sul calcolo sottile e segreto, e forse anche sull’ipocrisia coltivata con il rigore di una virtù.
Nel Settecento, Voltaire – muovendo da un totale pessimismo oggettivo e da una nozione di natura e di storia non illuminate dal raggio di alcuna provvidenza – aveva posto le basi di un ottimismo soggettivo, fiducioso nelle sorti della battaglia ingaggiata dalla ragione umana. Dopo di lui, il pessimismo delle cose “corrode” sempre di più i margini di questo ottimismo della ragione, e rende la posizione dell’uomo sempre più precaria. La sconfitta, la vanità della storia, l’impossibilità di comprendere la vita in uno schema razionale saranno “il motivo di fondo” che serpeggia nella grande narrativa dalla metà dell’Ottocento in poi, fino alla nostra epoca, nella quale “l’assurda atrocità del mondo diventerà un dato di partenza comune a quasi tutta la letteratura”.
E’ un fatto che quando con Flaubert la letteratura realistica tocca la sua punta massima di fedeltà ai dati dell’esperienza, il senso che ne risulta è quello del “vanità del tutto”, nel segno di un’eco leopardiana. “Dopo aver accumulato minuziosi particolar e costruito un quadro di perfetta verità – afferma Calvino – Flaubert ci batte sopra le nocche e mostra che sotto c’è il vuoto, che tutto quello che succede non significa niente”.
La “terribilità” de “L’educazione sentimentale” consiste nel rilevare che per centinaia e centinaia di pagine si vede scorrere la vita privata dei personaggi e quella pubblica della Francia finché il tutto finisce per disfarsi sotto le dita come cenere. E perfino in Tolstoj, “il più grande realista che sia mai esistito”, perfino in “Guerra e pace”, “il libro più pienamente realistico che mai sia stato scritto”, cos’è che dà quel respiro di immensità se non il passare dal cicaleccio di un salone principesco alle rotte voci di un accampamento di soldati, come se queste parole “ci giungessero da un altro pianeta, come un ronzio di api in un bugno vuoto?”: nel segno, questa volta, di un’eco pascoliana.
Questo scenario dimostra che non sono più le azioni e la passioni umane a costituire la forza motrice del mondo, ma l’impalpabile fluire della vita: i bisbigli e i fruscii che si levano nel limpido cielo tra le case dei pescatori di Aci Trezza ne “I Malavoglia”, oppure lo snodarsi dei lunghi periodi di Proust, i quali inseguono, di corsa, le sensazioni, i desideri e gli affanni perduti. In questo incalzante fluire, che è natura e storia insieme, l’individualità umana si inabissa, per svaporare in un magma indifferenziato.