Critico dal tono misurato (oltre che dal tocco di signorile finezza) Attilio Momigliano si accende di inusuale fervore quando – in un elzeviro del 1938 – esprime un’approfondita valutazione sulle lezioni dantesche tenute da Francesco De Sanctis a Torino nel biennio 1854-1855. Nell’atto di spiegare Dante, il giudizio coniuga tre figure in cui è dato di riconoscere il maestro: l’educatore del Risorgimento, il figlio del Romanticismo e il rivelatore perenne della poesia.
“Senza il Romanticismo – scrive Momigliano – la critica sarebbe rimasta all’infanzia in cui era giaciuta per tanti secoli, e nemmeno De Sanctis ci sarebbe stato. Ma senza De Sanctis la critica romantica dantesca non sarebbe che una congerie di frammenti”. Nell’interpretazione dantesca sviluppata durante i corsi a Torino, il critico ha mostrato “la maggiore fertilità e la maggiore potenza della sua analisi”. Ha infatti definito i suoi più fecondi canoni di esplorazione e investigazione di un testo, come pure ha combattuto “le più forti battaglie contro la falsa critica”. Di conseguenza, queste lezioni sono quelle che meglio definiscono la sua figura di critico “novatore e demolitore”.
De Sanctis era fermo nel convincimento che la perfezione di un’opera consiste nell’equilibrio tra ideale e reale. Questa “equazione” la trovava ben formulata nella “Divina Commedia” e ne riscontrava la magistrale esemplificazione nei “Promessi sposi”. L’elemento ideale si affaccia con evidenza nell’”Inferno”, un contesto in cui acutamente si avverte “la presenza e l’esigenza solenne del poeta” sottesa anche alla più fosca figura di dannato. Come mai, si chiede De Sanctis, da una materia così brutta, di cui si sostanzia l’”Inferno”, scaturisce una poesia così bella? C’è appunto l’irruzione dell’ideale a spiegare questa “dicotomia” poi sublimata in “sintesi”.
L’”Inferno” era la cantica prediletta dei romantici e De Sanctis, “che pure sedette arbitro fra il classicismo e il romanticismo”, asseconda con manifesto favore questa predilezione perché “romantico egli stesso nonostante tutto”, trova in tale cantica quei giochi di ombre, quelle figure violente e scomposte, quei contrasti stridenti e impetuosi che finivano per eccitare più agevolmente “non solo la sua vena di critico, ma anche il suo estro di scrittore”.
Se qualche pur lieve riserva viene avanzata da Momigliano, essa investe il versante stilistico, ma solo per rilevare che il linguaggio di De Sanctis, da principio, risulta “un po’ troppo frizzante e frastagliato”, risentendo della temperie romantica. Un linguaggio che qualche anno più avanti si mostrerà più controllato e levigato, perché destinato a “purificarsi allo specchio della prosa manzoniana”. I riverberi dello stile romantico inducono talora il critico a “drammatizzare” “i quadri” e “le passioni”, con un gusto che si discosta dalla sobrietà di Dante. La ricchezza romantica di idee e di sentimenti, anche in capitoli saldi come quello incentrato su Beatrice, getta “una patina anacronistica” sul poema, e qua e là si palpa la trama del mobile e colorito andirivieni di antitesi e di gradazioni. “De Sanctis finisce così per sacrificare, qualche volta, la verità alla vivacità”.
Riserve a parte, Momigliano evidenzia “la forza trascinatrice” di questi corsi, nei quali torreggia l’ispirazione critica del maestro. Un’ispirazione che unisce “una multiforme esperienza umana e un’inestinguibile fiamma morale”, fuse con un’incisiva rapidità di impressioni e di osservazioni. Dalle lezioni torinesi si scioglie, in particolare, un inno all’”Inferno”, ovvero, scrive Momigliano, “quell’odissea di un giusto ferito che ammonisce e castiga e sospira il ritorno alla patria e la reintegrazione della coscienza umana”. Quell’”Inferno” che per De Sanctis è “un mondo inesauribile e compiuto”.