L’ammonimento di Talleyrand – “guardati dall’eccesso di zelo” – ben si addice, come correttivo, a donna Prassede, così ossessionata dal desiderio di aiutare, a modo suo, il prossimo, da sortire, paradossalmente, l’effetto contrario. Così Manzoni ne scolpisce la natura caratteriale: “Una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene, mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare, ma che purtroppo può anche guastare”.
Ella cerca di aiutare Lucia a superare il trauma della prigionia sofferto nel castello dell’Innominato: il tentativo è condotto in modo sgraziato e inopportuno, anche perché muove dall’erroneo presupposto che Renzo sia “un poco di buono” a motivo degli ordini di cattura che lo riguardano. La “samaritana” – risoluta a far sì che la giovane non si crucci più per il promesso sposo – nei suoi involuti “sermoni” nomina spesso Renzo. Così facendo nuoce a Lucia che vorrebbe dimenticarlo – suo malgrado -, avendo fatto voto di castità nel castello dell’Innominato. Scrive Manzoni: “Però, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo segno. Ci sarebbe anche riuscita meglio se fosse stata sola a volerlo. Ma c’era donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle dall’animo colui, non aveva trovato miglior espediente che di parlargliene spesso”.
Sposata a don Ferrante (che incarna la figura dell’erudito seicentesco tutto assorbito dalla sua polverosa cultura libresca), donna Prassede ha cinque figlie: due sono sposate, tre sono entrate in convento. Su di loro (anche su quelle chiuse nei monasteri) ella tenta di esercitare un’influenza soverchiante che sgorga dalla sua brama di “fare del bene ad ogni costo”. Un’influenza, la sua, che finisce per produrre – al contrario delle sue intenzioni – fastidiose interferenze. In virtù di questa dinamica, ella è non solo carnefice, ma anche vittima. Paga infatti il fio delle sue stesse mal studiate manovre, le quali la relegano in una solitudine che risulta ancor più dolorosa perché è da lei avvertita come una flagrante ingiustizia. Non rendendosi conto che il suo zelo aggrava le ferite dell’animo altrui invece di sanarle, donna Prassede si sente incompresa e leva la sua protesta contro coloro che non sanno provare e dimostrare riconoscenza e gratitudine. Interpretando, secondo la sua distorta prospettiva, la morale cattolica, ella si fa paladina di un metodo di educazione fondato sulla sorveglianza e sulla repressione, da lei riconosciuti come principi funzionali a favorire e a trasmette la persuasione a fare del bene. In forza di tale metodo, arriva a muovere obiezioni allo stile di testimonianza del cardinale Borromeo, che invece promuove un insegnamento che poggia, anzitutto, sul rispetto della persona e della sua libertà, nonché sul dovere, da parte di chi intende aiutare il prossimo, di saper in primo luogo ascoltare prima di intervenire. A donna Prassede è precluso il respiro di una concezione più ampia della carità cristiana, e di conseguenza si limita a vedere – esecrabile miopia – solo il frutto, e non il seme che è stato pazientemente gettato e dal quale, con la dovuta gradualità, esso è poi generato.
Il severo giudizio che di questa figura dà Manzoni esemplarmente si specchia nel lapidario epitaffio (ella morirà di peste) che così recita: “Di donna Prassede, quando si dice ch’era morta, è detto tutto!”. Per una volta l’ironia manzoniana non è venuta in soccorso con il suo potere lenitivo.