La filosofia è essenziale alla struttura della poesia, e quando la filosofia si tinge di spiritualità, la poesia stessa assume un valore più grande e una forza più incisiva. E’ questa la tesi sostenuta Thomas Stearns Eliot, che vedeva incarnata in modo esemplare in Dante, da lui stimato in sommo grado. Per esaltare il divino poeta, lo scrittore statunitense naturalizzato britannico si era trovato “obtorto collo” a criticare uno scrittore da lui “altamente rispettato”, Paul Valery, il quale – in una nota critica pubblicata sulla rivista letteraria “Athenaeum”, il 23 luglio 1920 – dichiarava che la “poesia filosofica” era ormai sulla china di un inarrestabile declino: forse in passato essa aveva avuto una sua ragion d’essere, ma nell’attualità questo genere di poesia aveva perso smalto e slancio. Di diverso parere era Eliot, secondo cui non solo nel tempo presente tale poesia, innervata di un’immaginazione potente, conservava intatto il suo status, ma poteva vantare in Dante la figura di riferimento per eccellenza.
Ne “Il bosco sacro”, libro che raccoglie saggi sulla poesia e la critica, Eliot – nel difendere l’autore della “Divina Commedia” da “inopportune puntualizzazioni” mosse dai suoi stessi estimatori – afferma che è sbagliato distinguere tra “poesia” di Dante e “dottrina” di Dante, anche perché talvolta la filosofia viene confusa con l’allegoria. “La filosofia – scrive Eliot – è un ingrediente, è una parte del mondo di Dante così come è una parte della vita, mentre l’allegoria è l’impalcatura sulla quale è costruito il poema”. Citando un manualetto dello scrittore Henry Dwight, il quale si proponeva di spiegare al lettore il significato di Dante quale “guida spirituale”, Eliot ne condivide l’assunto secondo cui l’inferno, nel suo senso letterale, è per il poeta “una cosa secondaria e lo è anche per noi”. Sia a Dante sia al lettore interessa l’allegoria, ed essa è semplice: l’inferno è l’assenza di Dio, in virtù della quale si scatena un movimento impetuoso vero l’alto, nel segno di un processo catartico che, puntando al cielo, imbastisce e poi suggella la redenzione dell’uomo.
L’ammirazione di Eliot per Dante ha una rilevante singolarità, perché s’inserisce in un contesto altrimenti caratterizzato dalla propensione a riconoscere il modello negli autori greci e latini. Eliot dunque va controcorrente, poiché sebbene ammirato, il divino poeta di rado assurgeva a riferimento, tanto meno in Inghilterra dominata dal carisma di Shakespeare. Nel saggio “What Dante Means to Me”, apparso nell’opera “To Criticize the Critic and Other Writings”, Eliot afferma che la poesia di Dante costituisce “una scuola universale di stile per tutti i poeti e per tutti i linguaggi”. Come lui “c’è solo Shakespeare” e “non conosco un terzo” chiosa lo scrittore. “Se si cerca di imitare Shakespeare – osserva – il risultato sarà una distorsione del linguaggio, che diventerà soffocato e oltremodo violento; se si cerca di imitare Dante, e non si ha talento, l’imitatore si dimostrerà prosaico e banale”. E non c’è niente di prosaico in Dante, rivendica Eliot, che vede proprio nell’esperienza mistica l’asse portante della sua architettura poetica. “Il vero mistico – scrive – non si soddisfa del solo sentimento, deve almeno pretendere di ‘vedere’, e l’assorbimento nel divino è soltanto il necessario, benché paradossale, limite della contemplazione.
Dante, più di ogni altro poeta, è riuscito a trattare la sua filosofia non come teoria, o come sua riflessione, ma in termini di cosa “percepita”. Quando quasi tutti i poeti moderni si limitano a ciò che hanno percepito, producono per il lettore nient’altro che “oggetti di natura morta e pezzi disparati di arredamento come in un magazzino teatrale. Questo, tuttavia, non implica tanto che il metodo di Dante sia superato, quanto che “la nostra visione è forse ristretta”.
Sin da giovanissimo Eliot aveva coltivato una predilezione per Dante, capace di essere e restare “semplice e chiaro” pur nella “grandiosità maestosa del suo pensiero. Quando, dopo oltre quarant’anni “il colpo di fulmine” si ritrovò chino sul tavolo a “nutrirsi” ancora dei versi della “Divina Commedia”, Eliot confessò che non aveva mai conosciuto un poeta che sapesse coniugare – in una sintesi così rigorosa e illuminante – intelletto ed emozione, cronaca fattuale e sublime immaginazione.
