Si era fatto le ossa ancora prima di cominciare. La pubblicazione de “I ventitré giorni della città di Alba”, avvenuta nel 1952, segnò l’esordio letterario di Beppe Fenoglio. Eppure la dimensione narrativa che informa di sé questa raccolta di dodici racconti rivela una visione del mondo già matura e una levigata e compiuta cifra stilistica. Sentenziava Diderot che “ognuno si costruisce una statua interiore, e lo fa nel momento peggiore della propria vita, l’adolescenza, quando non sa ancora nulla di sé, né del mondo”. Lo scrittore sembra dunque smentire il filosofo francese: è infatti già “completo” in quell’opera. Prova ne sia che i dodici racconti sono per metà di argomento partigiano e per l’altra metà di argomento contadino e post-bellico: come se nella raccolta Fenoglio presagisse il regolato bilanciamento di spunti e slanci che avrebbero caratterizzato la sua produzione successiva.
Come acutamente osserva lo scrittore Davide Longo, la materia con cui Fenoglio scolpisce “I ventitré giorni della città di Alba” è la stessa da cui estrarrà tutte le sue storie, ovvero la pietra di langa. Si tratta di un materiale duro, ma lavorabile, e non soggetto ad essere danneggiato nel tempo. E nei dodici racconti d’esordio lo scrittore lavora la pietra con cui sono fatte la propria casa, ad Alba, e le proprie colline, le Langhe. La guerra gli aveva portato sull’uscio la Storia: Alba fu la prima città liberata dai partigiani, sebbene per soli ventitré giorni. E nella vita grama e laboriosa dei contadini egli riconosceva il simbolo della pietra perfettamente convertibile nella prospettiva epica.
Privi degli aiuti alleati, i partigiani dunque resistettero poche settimane prima di cedere nuovamente la città all’esercito della Repubblica Sociale Italiana. Il racconto di Fenoglio, in merito, appare disincantato, e non inficiato da declinazioni retoriche (che invece erano molto pronunciate in quegli anni attorno alla Resistenza). I partigiani sono descritti come giovani combattenti semplici, talvolta anche spietati. Insomma Fenoglio non gli aveva cucito addosso quella veste stereotipata ammantata di eroismo tanto cara, invece, a molti intellettuali, anzitutto di sinistra. E questa angolazione scatenò, da principio, vibranti critiche e forti ostilità. Solo successivamente il suo modo di “raccontare i partigiani” fu apprezzato nella giusta misura, riconoscendone il valore dal punto di vista storico.
Se il tema della libertà già si affacciava con vigore già ne “I ventitré giorni della città di Alba”, ne “Il partigiano Johnny” (pubblicato postumo, nel 1968), una delle opere più rappresentative della Resistenza, esso assume un profilo di icastica evidenza. Si tratta di un romanzo autobiografico incompiuto, che racconta la storia di un giovane che vive la traumatica esperienza della seconda guerra mondiale. Tale esperienza è da lui interiorizzata con una vertiginosa profondità di sentimenti e con un’ardente passione etica. Gran parte delle vicende, pur romanzate, furono vissute da Fenoglio in prima persona, ed è quindi lecito riconoscere nella figura del protagonista una chiara proiezione dell’autore: il giovane studente Johnny, cresciuto nel mito della letteratura inglese, dopo l’armistizio dell’8 settembre, a Cassibile, tra il Regno d’Italia e gli Alleati della seconda guerra mondiale, deciderà di “rompere con la propria vita” e di andare in collina a combattere con i partigiani. Incerta è la fine del romanzo: Fenoglio lascia intendere che Johnny trovi la morte in un conflitto a fuoco, a due mesi dalla liberazione.
Sul piano narrativo – rileva il critico letterario Dante Isella – il romanzo, rispetto alla letteratura della Resistenza, è come il “Moby Dick” nella letteratura americana. La sua dimensione epica dilata lo spazio e il tempo dell’azione oltre le loro misure reali. Il nome dei luoghi, chi li cercasse in una carta geografica, non li troverebbe: sono tutti raccolti in un ristretto ambito della topografia delle Langhe, tra Alba, Asti e Canelli. Ma dietro il passo serrato di Johnny, il lettore è sospinto, di avventura in avventura, in un variegato sistema di colline, affrancato da una precisa individuazione geografica. Lo stesso metodo vale per il tempo (poco più di un anno sul calendario della storia). Nel romanzo il tempo è quello eterno: si alternano, a ritmo incalzante, albe e tramonti, sole e luna, nuove e sereno. E’ un succedersi che emana un senso primordiale, espressione del rapporto viscerale tra l’uomo e la natura. E in questo rapporto si specchia l’incessante meditazione, al contempo dolorosa e illuminante, sul bene e sul male che forgiano il corso della storia.
Sul piano stilistico, spicca nel romanzo l’intreccio tra l’italiano e l’inglese. Ne deriva una prosa scattante, talora nervosa, in aperto contrasto con il collaudato protocollo della convenzione letteraria. Si tratta di una sperimentazione che manifesta la volontà di una libertà espressiva la quale intimamente si lega all’anelito ad una libertà morale nutrito e alimentato da chi, per difenderla, è andato sulle colline per combattere. L’incontro con l’inglese, dalla valenza epifanica, avvenne sui banchi del primo ginnasio. In essa Fenoglio riconobbe subito una “lingua magica”, capace di garantirgli uno spazio espressivo svincolato da lacci e pastoie, e dunque perfettamente funzionale ad una missione di vita innervata di un’alta, e mai corruttibile, istanza etica.