Ci fu chi lo accusò di non aver alcun riguardo per il lettore perché si crogiolava nel gusto di ammannirgli un improbabile coacervo di stile diversi, con il risultato di rendere quanto mai ardua ed ostica la fruizione delle sue opere. Mostrandosi indifferente a tale biasimo, Carlo Emilio Gadda plasmò, senza tentennamenti, una narrativa peculiare, a tratti completamente originale, destinata a segnare una svolta nella letteratura italiana del Novecento. Attraverso un calibrato impasto di linguaggi diversi – dialetti, termini gergali e tecnici, spiazzanti neologismi – lo scrittore milanese giunse a scardinare la struttura tradizionale del romanzo. Questa radicale scelta linguistica non fu certo dettata da un capriccio o da sbalzi umorali. Affondava invece le radici nella chiara coscienza che solo mediante moduli espressivi inediti e aggressivi era possibile formulare una denuncia ferma ed incisiva della crisi dei valori borghesi che segnava quell’epoca. Mai in Gadda le bizzarrie linguistiche si risolvono in un gioco pirotecnico fine a sé stesso: al contrario, esse si rivelano funzionali all’interno di una strategia compositiva diretta a smascherare, senza compromessi, vizi e malefatte della società.
Un’esemplare testimonianza di questo scenario è fornita dal suo romanzo più noto, “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, un “giallo” classico ma al contempo del tutto particolare, in cui si sviluppa una galvanizzante fusione di italiano, molisano, romanesco. Tale fusione serve a comunicare quel “barbuglio” di tensioni, suoni, odori e sentori che caratterizzava gli anni del fascismo in cui è ambientate la storia. La vena narrativa di Gadda si dimostra quanto mai brillante nel descrivere il caparbio e perspicace commissario Ingravallo, la svaporata contessa Menegazzi, la signora Balducci, bella e malinconia. Il protagonista del romanzo sembra essere il palazzo in via Merulana, la cui consueta decorosa quiete viene prima incrinata da un furto di gioielli e poi lacerata da un efferato omicidio, come se “una vampa calda, vorace, avventatasi fuori dall’inferno, l’avesse d’improvviso investito”.
La narrativa di Gadda suscitò l’interesse di Calvino che nella quinta delle “Lezioni americane” definisce la sua opera un esempio moderno di “romanzo contemporaneo come enciclopedia”. Secondo Calvino, Gadda “cercò per tutta la vita di rappresentare il mondo come un groviglio, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento”. La frantumazione del tradizionale codice linguistico operata da Gadda gli è valso l’accostamento a James Joyce: quel flusso di coscienza, fiore all’occhiello della prosa innovativa ed eversiva dello scrittore irlandese, si manifesta in Gadda anzitutto sul piano linguistico, nella forma di un torrente in piena in cui ogni detrito gergale e semantico concorre a definire uno strumento di comunicazione capace di penetrare in ogni recesso della realtà, anche il più remoto.
La sperimentazione linguistica è manifesta poi ne “La cognizione del dolore”, romanzo con forti echi autobiografici, ambientato nell’immaginario Stato andino del Maradagai, che presenta significative somiglianze con la Brianza lombarda del Ventennio. Il romanzo, incompiuto, è dominato dal senso di solitudine che investe e corrode il protagonista, Gonzalo Pirobutirro, mangiatore insaziabile, accusato di violenze continue contro la madre con cui vive. Gonzalo vorrebbe stabilire con il mondo circostante un rapporto sereno, addirittura costruttivo, ma la sua è un’aspirazione destinata a fallire. Egli stesso si trova a constatare che la borghesia che lo circonda è formata da persone esangui, senza nerbo, che “non vive, ma si lascia vivere”. E’ ben mirata la denuncia formulata nel romanzo: la società non riesce a trovare una sua logica e stenta ad individuare un patrimonio di valori e di miti da condividere con sano orgoglio e “puntuta” e “acuminata” fierezza. Come ha scritto Guido Piovene, Gonzalo contempla quel mondo con sentimenti “covati con la con lo sguardo carezzoso dell’odio”. Quei borghesi diventano progressivamente per il protagonista dei veri e propri nemici, da lui definiti “manichini ossibuchivori”. In un passo del romanzo si legge: “La sarabanda famelica vorticava sotto i globi dondolati dal pampero, dal vento della pampa, tra miriadi di sifoni di seltz. La luce del mondo capovolto si beveva le sue folle uricemiche, profumieri in balia del Progresso”. Il pastiche stilistico di Gadda, che di primo acchito può sortire un effetto inquietante in virtù del suo sigillato ermetismo, è in realtà intriso della linfa che nutre e sostiene costantemente la dimensione etica e ideologica. Di conseguenza la tensione espressiva, spesso portata all’estremo, si configura non come il fine ma come il mezzo, tramite il quale squarciare quel velo che avvolge – con perversa complicità – nocive ipocrisie, imbarazzanti magagne e certezze solo presunte e mai convalidate.
