Rispetto a don Rodrigo, suo cugino, il conte Attilio ha un’intelligenza superiore. Entrambi spiccano, negativamente, per grossolanità e rozzezza, di modi e di sentire, ma il conte Attilio risulta essere più scaltro. Certo, gli sono completamente estranee le arti della diplomazia, ma sa guardarsi le spalle. Al celebre banchetto di don Rodrigo, egli è colui che grida più alto, come pure è quello che vorrebbe dirimere una questione di cavalleria bastonando il portatore della sfida e risolvere la crisi del grano e del pane impiccando quattro o cinque dei fornai più ricchi. Fosse per lui, bandirebbe ogni forma di processo. Al culmine della discussione, esclama: “Ma che processi. Giustizia sommaria piuttosto”. Una giustizia sommaria che vorrebbe veder applicata ai danni di fra Cristoforo, reo di aver interferito nella vicenda tra don Rodrigo e Lucia. Ci penserà lui, dice con enfasi gradassa, a punire “come si deve” il cappuccino, rivolgendosi al conte zio del Consiglio Segreto di Milano.
“Un manesco senza rimorso” lo definisce Luigi Russo. Con grazia monellesca non si ritirerebbe, pur di ottenere lo scopo prefissato, da qualsivoglia scelleratezza. Egli vive la sua malvagità nella più perfetta innocenza. Anche in questo caso, come per altri “cattivi” che popolano il romanzo, Manzoni lascia intravedere una sorta di indulgenza per chi sceglie il male invece del bene. Insomma, sempre in conformità al suo magistero morale, lo scrittore non infierisce contro coloro che deviano dalla retta via. Così il conte Attilio mostra, a suo modo, un’intima e perversa coerenza che ne fa un virtuoso della malizia.
Sebbene frivolo e leggero, e dunque pericolosamente irresponsabile, nel concepire e perpetrare azioni disoneste, il conte Attilio – per intercessione, screziata di ironia, di Manzoni – sa anche offrire un lato serio. Si tratta di una serietà con la quale vive alcune menzogne convenzionali del suo secolo. E tale serietà gli viene in soccorso per suggerirgli utili espedienti nei momenti critici. E’ lui che – senza convenevoli e in forza di un principio teorico sentito con intima convinzione – mette in imbarazzo l’Azzeccagarbugli, il quale vuole sfuggire al giudizio per non compromettersi nella disputa cavalleresca; è lui che ha il “coraggio” di farsi beffe di don Rodrigo, quando lo vede pensieroso dopo il serrato colloquio con fra Cristoforo.
Il conte Attilio, al contempo, sa anche essere vile. Essendo scoppiato il tumulto popolare di san Martino per la scarsità del pane, pensa bene di rinviare il suo ritorno in città per evitare che qualcuno gli possa nuocere. Scrive Manzoni: “Il conte Attilio, secondo i suoi primi disegni, avrebbe dovuto a quell’ora trovarsi già a Milano. Ma, alle prime notizie del tumulto, e della canaglia che girava per le strade, in tutt’altra attitudine che di ricever bastonate, aveva creduto bene di trattenersi in campagna fino a cose quiete. Tanto più che, avendo offeso molti, aveva qualche ragion di temere che alcuno de’ tanti, che solo per impotenza stavano cheti, non prendesse animo dalle circostanze, e giudicasse il momento buono da fare le vendette di tutti”.
Il “capriccio” di don Rodrigo di far sua Lucia nasce da una scommessa partita proprio dal conte Attilio che, crogiolandosi nell’ozio, passa il tempo a ingaggiare dispute e ad animare controversie che rischiano di avere conseguenze, anche pesanti, sulla vita di persone ignare e innocenti. Il conte Attilio morirà di peste nel lazzaretto. Don Rodrigo, che partecipa ai suoi funerali, verrà contagiato proprio in quella circostanza. Un puntuale segno del destino (o della Provvidenza) con il quale ognuno, nessuno escluso, deve – prima o poi – fare i conti. In conformità ai semi, buoni o cattivi, gettati lungo il cammino.