Non esiste solo il canone occidentale di Harold Bloom. C’è anche quello formulato da George Steiner. Il critico, filosofo e saggista francese ha abbracciato lo scibile della letteratura: dalla tragedia greca a Heidegger, da Shakespeare ai romanzieri russi. Nato da una famiglia di ebrei viennesi, per sfuggire alle grinfie del nazismo riparò, nel 1940, negli Stati Uniti per poi diventare cittadini americano. La carriera accademica è stata scandita da cattedre tra le più prestigiose, in particolare quelle di Princeton, Cambridge, Oxford e di Ginevra. E’ stato il critico di punta del “New Yorker”, dove ha pubblicato saggi in cui ha saputo coniugare l’atto della recensione con l’omaggio allo scrittore recensito: un eccellente misto di dottrina e umanità.
In questo senso, era calibrata anche la critica: essa poteva essere severa ed acuminata, ma mai urticante ed offensiva. Anche la parola più caustica era avvolta in un velo di garbo e signorilità. E per la parola Steiner aveva una venerazione, in particolare per “la parola umana”. Al riguardo, sottolineava come non finisse mai di stupirsi dell’uso che di essa si può fare. “La parola umana – diceva – si può usare per amare, costruire e perdonare, ma anche per torturare, distruggere e annientare”.
In “La passione per l’assoluto. Conversazioni con Laure Adler”, Steiner racconta sé stesso e la sua parabola esistenziale. In quest’opera esprime una convinzione che può assurgere a manifesto del suo sentire e della sua singolare concezione dello stare al mondo. “Si può essere a casa propria dappertutto. Datemi un tavolo da lavoro e sarà la mia patria”. Ma la sua non era solo la patria delle lettere, ma una patria universale, libera da tutte le scorie superflue e polverose che possono derivare da una cultura accademica stantia, refrattaria agli influssi e alle sollecitazioni del mondo esterno. Del resto Steiner era un europeo poliglotta: poteva scrivere e parlare in inglese, tedesco, francese e italiano.
Di pregevole fattura sono i saggi sul filosofo e storico ungherese Gyorgy Lukacs, il quale, nel riformulare in chiave antidogmatica e umanistica la teoria marxista, aveva ribadito il concetto – caro a Steiner – dell’alienazione dell’uomo moderno e della moderna società capitalistica. Un’alienazione che, secondo il filosofo francese, investiva in primo luogo l’intellettuale. Lui che riteneva che un tavolo di lavoro fosse sufficiente per sentirsi cittadino del mondo, paventava il timore che l’uomo di cultura non potesse trovare – in un mondo segnato dalla violenza, dai contrasti di classe e dalla corruzione morale – la sua giusta collocazione.
Steiner non ha mai stilato classifiche degli autori preferiti che, a mano a mano, veniva studiando e recensendo. Indicativo, al riguardo, è il saggio “Tolstoj o Dostoevskij”, in cui il critico non si pone l’obiettivo di stabilire una supremazia tra i due- Il dato su cui punta è invece la complementarità. Tolstoj trasfonde nel genere del romanzo l’esemplarità scultorea dell’epica omerica, mentre Dostoevskij vi riproduce il dinamismo tragico di Shakespeare. Una complementarità che diventa paradigma sul quale misurare la sostanza e il valore dei romanzi di tutti gli altri scrittori.
