Nel vasto canzoniere di Pascoli ricorre spesso la parola “perdono”. Tuttavia essa non attinge mai una vera profondità lirica, non essendo forgiata al fuoco del sentimento religioso. “Il lettore sente che il poeta, che non fu credente, non perdona veramente” osserva il critico Luigi Russo. Formatosi nel pieno del positivismo e imbevuto di spirito materialistico, Pascoli finì per essere segnato da una “lontana e inconsapevole” ispirazione manichea. “Il Male è più grande di Dio” scrisse il poeta nell’ode per l’assassinio di Umberto I nel 1900. Questo giudizio equivale ad una “eresia” sentenzia Russo, stabilendo un reciso contrasto tra Pascoli “ateo” e Manzoni “religioso”. Nei “Promessi sposi” lo scrittore celebra più volte, con tutti gli onori e con forte sentire, proprio il valore perdono. Spicca, in merito, la scena in cui Ludovico chiede perdono, coram populo, al fratello dell’ucciso. Una scena di vibrante commozione screziata di fine umorismo: “Diavolo di un frate! – esclama l’interlocutore -. Se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento, quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello”. Per rincarare la dose su Pascoli “non credente”, Russo sottolinea che in Carducci c’è “maggior spirito cristiano” e in Leopardi, cantore del nulla eterno e insofferente del “divino”, pur sempre vibra quel senso di mistero che nel poeta di San Mauro svapora invece in una tensione “fiacca e sdrucita”, di stampo accademico.