Che due contadini fossero i protagonisti dei “Promessi sposi” non tornava affatto gradito al poco cristiano Tommaseo, molto più propenso a porre sotto le luci della ribalta l mondo dell’aristocrazia. Dal canto suo la critica romantica, nel fare propria questa riserva, si mostrava scettica riguardo al fatto che una così complessa struttura romanzesca andasse a gravare sulle spalle di un filatore si seta e di una povera montanara. Risultava poco plausibile, sempre per la critica romantica, che queste due figure di basso profilo sociale trascinavano dietro di loro signori, cardinali e potentati.
Si oppone a questa lettura Luigi Russo che, sulla base di un’illuminante intuizione, poi sviluppata con robuste e persuasive argomentazioni, sostiene che il vero protagonista del capolavoro manzoniano è il Seicento. Seguono quindi i coprotagonisti che sono – come attestato nel dipanarsi della vicenda – la paura e lo sfarzo, dominanti nel diciassettesimo secolo. Tanti sono gli esempi che si possono addurre a testimonianza della tesi di Russo. E’ sufficiente la descrizione dei due bravi, all’inizio dell’opera. L’”enorme ciuffo”, segno di ribalderia; i “due lunghi mustacchi arricciati in punta”, espressione di un’equivoca eleganza; il “piccol corno ripieno di polvere”, simbolo di rissosi disegni, e quel suo pendere trascurato sul petto come se fosse un vezzo; anche lo spadone, “con una guardia traforata a lamine di ottone”, è un’arma di minaccia, ma portata come se fosse un’insegna gentilizia. Essi non sono due ribaldi tipici e generici, ma due ribaldi penetrati dell’atmosfera del loro tempo, in cui la ribalderia, secondo lo spirito allora diffuso, è presentata come vanità e pompa barocca.
Il Seicento dei “Promessi sposi” marginalizza gli avvenimenti storici per configurarsi, nell’economia del racconto, come spirito, come logica, come gusto. “Anche senza la guerra per la successione di Mantova – osserva Russo – il romanzo sarebbe rimasto parimenti il romanzo del Seicento”. Di quel secolo lo scrittore viene tracciando l’interna vita, la quale – svuotata del sentimento intimo di Dio – non può che essere vana e sterilmente sfarzosa. Il puntiglio e l’orgoglio sono, tristemente, le fondamenta su cui poggia quel secolo farisaico. Don Rodrigo muove tutta l’azione per tenere fede ad una vile scommessa; il conte Attilio e il conte zio devono sostenere l’onore del casato; il podestà, l’onore della formale dottrina giuridica; don Ferrante, l’onore delle buone regole ortografiche. “Il più cupi di tutti”, sottolinea Russo, è il principe-padre che all’altare del decoro sacrifica la figlia Gertrude. Egli non adopera mai “parole grosse”, ma agisce per vie indirette, creando un’atmosfera atta a suscitare determinati sentimenti. Dice alla figlia: “Che madre badessa! Comanderai a bacchetta”. Le sue sono piccole e periodiche pozioni di veleno inoculate nella figlia che diventerà la monaca di Monza. Ella è una vittima, sì, ma ella stessa diventerà complice del male – evidenzia Russo – perché, figlia del Seicento, obbedisce alle “leggi della falsa religione adottata”. Educanda, in quanto figlia di un principe, gode di certi privilegi. Monaca, è per tutti la Signora. E la stessa inclinazione per il paggio non è tanto amore, ma vanità soddisfatta. Quella vanità che pervade di sé, minandone morale ed etica, il Seicento.