Vibra un accorato lamento sulla condizione dell’uomo contemporaneo nel racconto “Un medico di campagna” (1916-1917) di Franz Kafka. Viene espressa, con vigorosi accenti, l’angoscia sottesa alla ricerca di una legge immutabile – garanzia quindi di equilibrio – che fissi una volta per tutte l’identità dell’individuo e regoli le burrascose e cangianti dinamiche del mondo. Un mesto pessimismo intride l’anelito a questo obiettivo, alla luce dell’amara considerazione che un messaggio mai arriverà a destinazione, nemmeno se a inviarlo è un imperatore. La supremazia dell’incomunicabilità è destinata a confermare l’umanità nella sua grigia solitudine.
Si staglia dunque come una sorta di manifesto programmatico il passaggio del racconto in cui si narra, appunto, della vicenda di un imperatore che, in punto di morte, incarica “un miserabile suddito” (che simboleggia ciascuno di noi) di consegnare un’importante missiva. “Fece inginocchiare il messaggero accanto al letto – scrive Kafka – e gli sussurrò il messaggio nell’orecchio. Tanto gli stava a cuore il contenuto che se lo fece ripetere, a sua volta, nell’orecchio”.
Dopo essere stato congedato, il messaggero, ben fiero dell’onore riservatogli, si mette in cammino. Non sa, “povero lui”, che cosa lo attende. Pensava, beffarda aggravante, che non sarebbe stato un compito arduo: egli è un uomo “instancabile” e non lo preoccupa il dover affrontare eventuali ostacoli.
Si troverà subito a dover fendere la folla, una folla ”immensa”. E’ costretto, dunque, a procedere con stentata lentezza. “Come volerebbe, se avesse via libera”, commenta un inclemente Kafka. Se non ci fossero impedimenti, infatti, “udiresti la stupenda risonanza dei suoi pugni contro una porta”. Invece si affatica invano. E “continua ad affannarsi attraverso le stanze del palazzo interno, dalle quali non uscirà mai”. Se anche ci riuscisse, “non vorrebbe dir nulla”: dovrebbe lottare, scendendo le scale. E se anche questo gli riuscisse, non ne ricaverebbe alcun profitto. Infatti dovrebbe attraversare i cortili, e dopo i cortili, la seconda cerchia dei palazzi. “Ancora scale e cortili, ancora un palazzo e così di seguito, per millenni”, dichiara lo scrittore.
Gli riuscisse di precipitarsi fuori dall’ultima porta, “ma questo non potrà mai accadere”, ecco imporsi dinanzi a lui la città imperiale, il centro del mondo, “ove sono ammucchiate montagne dei suoi detriti”. Nessuno riesce ad avanzare in questo lugubre scenario, “neppure con il messaggio di un morto”.
Tuttavia, c’è un improvviso, baluginante e sorprendente scarto nella cupa visione di Kafka, che afferma: “Ma tu siedi alla finestra e lo sogni il messaggio, quando viene la sera”. Sembra dunque a aprirsi un varco, stile Montale, in cui inserire una speranza, sebbene declinata in un tono di favolosa lontananza.