Ha sempre voluto restare nell’ombra, ma le luci della ribalta gli hanno comunque arriso, a dispetto di riserve e ritrosie. Tommaso Landolfi, espressione di eccentricità e stravaganza, non poteva dunque sottrarsi all’attenzione, prima semplicemente curiosa, poi vorace, della critica e del pubblico. Ad alimentare l’attrazione per questo autore, arguto e schivo, hanno contribuito le sue stesse accattivanti affermazioni di principio, in particolare riguardo al linguaggio, da lui considerato come una vera e propria “istituzione” verso la quale è “un dovere mostrare il più sacro rispetto”.
Landolfi, in più di un’occasione, ha dichiarato il suo “amore” e il “terrore” per le parole che, nella sua spumeggiante produzione letteraria, subiscono distorsioni, si caricano di molteplici di simboli e si innervano di astrusi rimandi. Questo tipo di linguaggio non poteva non accentuare l’isolamento, almeno agli inizi della carriera, di uno scrittore che si vantava di avere una ristretta cerchia di lettori, “ancora più esigua di quella di Manzoni”, e che lanciava strali ai critici incapaci di apprezzare il senso dei suoi ingegnosi testi.
Nella potenza delle parole egli nutriva una venerazione di stampo religioso. Nel racconto “Prefigurazioni: Prato” ricorda come ciò che più lo infastidisse dei compagni, durante il periodo della sua infanzia trascorso al collegio Cicognini, fosse proprio il linguaggio. Non poteva arrestare “palpiti” e “fremiti” di fronte a parole considerate terribili e sconosciute. Così scrive: “Aveva una sorta di religioso amore e terrore per le parole (che mi è rimasto poi a lungo), sulle quali concentravo tutta la carica del mondo; più semplicemente, le parole erano quasi le mie sole realtà. Sugli oggetti dunque che i miei compagni sottintendevano o si traevano dietro come accidenti, sarei anche stato disposto a chiudere un occhio, ma sulle parole! E dopo tutto, ossia per quel tanto che la realtà contava, che terribili cose non potevano esse evocare?”
Da tali premesse, evidenzia la studiosa Renata Ferrando, la poetica di Landolfi si è costruita sul “continuo urto” tra l’aspirazione alla parola che tutto dovrebbe contenere, tanto da sostituirsi al reale, e la constatazione dei suoi limiti, mentre l’autore “cozza contro la propria volontà” di una pura e assoluta verbalizzazione del mondo. Il mito che insegue è quello di una lingua che possa adattarsi alla “ripetibilità dell’essere in continua trasformazione”: un mito che viene esemplificato dalla parola giudicata “insostituibile”, capace di racchiudere in sé la realtà e anche di modificarla.
Landolfi esprime così una fiducia incondizionata nella parola, cui riconosce un valore salvifico e di sublimazione. Esemplare, in merito, è il racconto “Cancroregina”, il cui protagonista vive così estraniato dalla realtà che lo circonda al punto di arrivare al totale allontanamento dal mondo. E’ un allontanamento “fisico”. A bordo di un’astronave, si trova a compiere nello spazio un’orbita sempre uguale intorno alla terra. Mentre si consuma questo inane itinerario, definito “folle volo”, il protagonista sviluppa l’esigenza di raccontare la propria storia. Quanto più la realtà la sente assurda e la noia lo assale, tanto più avverte l’urgenza di scrivere.
Un atto, questo, concepito come l’unica via di scampo, mentre le parole, ossessionando la mente del protagonista, si trasformano in esseri dotati di vita propria.