Le traduzioni non devono mostrare con troppa evidenza di esserlo e, al contempo, non devono neppure sembrare opere originali. Nello stabilire le regole di una perfetta traduzione Leopardi fa un gioco di equilibrio, e aggiunge una significativa postilla: il traduttore di un poeta deve essere poeta a sua volta. Questo principio è fissato in maniera netta nel preambolo al secondo libro dell’”Eneide”. Proprio in questo scritto è manifesta la contraddizione implicita nel sostenere al contempo che la principale qualità di una traduzione è la fedeltà e che il traduttore deve essere un poeta.
Scrive Leopardi: “E sì ho tenuto sempre dietro al testo a motto a motto (perché, quanto alla fedeltà di che posso giudicare co’ miei due occhi non temo paragone) ma la scelta dei sinonimi, il collocamento delle parole, la forza del dire, l’armonia espressiva del verso, tutto mancava, o era cattivo, come, dileguatosi il poeta, restava solo il traduttore”.
Se il traduttore deve seguire la parola per il testo originale, in che cosa consiste la qualità poetica a lui necessaria? Dove deve dirigersi la creazione? Questi interrogativi trovano risposta nella critica alle traduzioni precedenti e in particolare a quella di Annibal Caro. Nel “Discorso sopra la Titanomachia” di Esiodo, Leopardi formulava una robusta critica nei riguardi del più famoso traduttore di Virgilio. Tale critica è fondata sull’osservazione che la sua “Eneide” è troppo originale rispetto al modello. Il motivo non è la facilità della composizione, che di per sé non costituisce un difetto, ma il fatto che Caro non ha saputo attenersi allo stile di Virgilio, sempre solenne e colto, scegliendone invece uno proprio, semplice e familiare. I confini entro cui l’originalità deve esprimersi stanno dunque nella facilità con cui il traduttore segue lo stile, che però deve formarsi sull’autore. Il criterio invocato da Leopardi non è solamente di gusto: l’unione dell’elemento creativo e dell’elemento imitativo è fondamentale.