In nove giorni a Bologna Leopardi stabilì più contatti che a Roma in cinque mesi. A Bologna, da lui definita “città quietissima, allegrissima, ospitalissima” il recanatese ebbe un’intesa frequentazione con il conte Carlo Pepoli, poeta, politico e librettista. Tra i due intercorsero ventidue missive, un numero sufficiente per rivisitare, anche negli angoli più reconditi, la temperie culturale dell’epoca. Il prezioso scambio epistolare viene ora riproposto dalla casa editrice Leo. S. Olschki “Giacomo Leopardi Carlo Pepoli (1826-1832), a cura di Andrea Campana e Pantaleo Palmieri (Firenze, 2023, pagina 160, euro 35). Il volume apre la collana “Carteggi leopardiani”. L’intento di questa benemerita iniziativa editoriale è di proporre – in venti pubblicazioni affidate a studiosi scelti – le corrispondenze di maggiore spessore e consistenza. Si tratta di un’operazione che consentirà di rivolgere una specifica attenzione ad ogni scambio epistolare, sia per quanto riguarda il testo, i suoi contenuti, le sue peculiarità e implicazioni, sia per quanto concerne il profilo dei corrispondenti: viene così a configurarsi un ideale bilanciamento tra lo studio dei documenti e gli approfondimenti di natura storica.
Il legame con Pepoli, affermano i curatori nell’introduzione, assume subito i tratti dell’affinità elettiva. Li accomuna l’origine aristocratica, le ambizioni culturali, il forte sentimento patriottico, la vicinanza ai liberali. Li separa, al contempo, il carattere: Pepoli è espansivo e impetuoso, Leopardi è riservato e riflessivo. Anche l’aspetto fisico marca una differenza: il recanatese è emaciato, nonché minato da una salute malferma, mentre il conte è il bellimbusto più celebre di Bologna, secondo Stendhal.
Il principale trait d’union fra i due fu lo scrittore Pietro Giordani. Nelle “Ricordanze biografiche” Pepoli dichiara: “Veramente si accrebbero le cagioni della mia ardente amicizia a Pietro Giordani per avermi fatto conoscere un giovane pieno di tanto merito, e di così fatta gentilezza sovraeccellente”. Il carteggio ha come sfondo una letteratura bolognese che presenta una sua propria unitarietà di contenuti e di forme. E’ dominata da un pronunciato classicismo, che trae linfa da Dante e dalla tradizione italiana linguistica e stilistica trecentesca e cinquecentesca, ed è percorsa dai accesi ideali patriottici che, con l’arrivo a Bologna delle truppe francesi, si consolidano. Ideali che fermentano in modo più celato durante il periodo della Restaurazione per poi manifestarsi con fervente vigore attraverso i moti antipapali degli anni Trenta e Quaranta.
Nell’”Epistola” a Pepoli, Leopardi scrive: “Questo affannoso e travagliato sonno che noi vita nominiam, come sopporti Pepoli mio?”. Poi più avanti: “A te conceda tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo la favilla che il petto oggi ti scalda, di poesia canuto amante”. Espressioni, queste, che rivelano l’intento di Leopardi di creare una netta divaricazione fra Pepoli, fanciullo illuso, e sé stesso, filosofo disilluso; fra un Pepoli poeta caldo e attivo, e un filosofo freddo e disimpegnato. L’”Epistola” è l’unico canto dedicato ad un vivente, assieme alla “Palinodia”. Pepoli risulta dunque una figura “estremamente rilevata”, come lo sarà quella di Gino Capponi, ma non in quanto depositaria di particolari affetti, ma per essere un “medium”. Come nella “Palinodia”, Leopardi parla ad un gruppo rivolgendosi a Capponi, così nell’”Epistola” parla ai Felsinei e, in generale, agli appartenenti alla scuola classica, rivolgendosi a Pepoli. Nell’”Epistola” il recanatese non intende fare un discorso sociale, alla maniera del Parini, che bacchetti gli usi “oziosi” dell’aristocrazia, esortandola ad un nuovo dinamismo. “E’ tutta – si legge in un passo – in ogni umano stato, ozio la vita, se quell’oprar, quel procurar che a degno obbietto non intende, o che all’intento giunger mai non potria, ben si conviene ozioso nomar”. Il poeta, pur nella consapevolezza dell’”infinita vanità” di ogni cosa umana, sostiene che comunque è meglio per l’animo l’attività e la produttività che giacere sfaccendati e supini alla noia, come fa la maggior parte dei nobili. Tuttavia non è dato di constatare un invito convinto ad una riforma: l’esortazione rimane circoscritta entro i confini di un discorso sulla felicità, profondissimo certo, ma pur sempre un discorso sulla vita interiore del singolo, sui diversi gradi di approssimazione ad una supposta “eudaimonia”. Solo Pepoli, anche se nobile, sembra fare eccezione al vincolo inderogabile della noia.
I critici si chiedono, ma già conoscendo la risposta, se tra i due ci fu una vera amicizia. E’ da escludere. Si tende piuttosto a porre l’accento sul valore di una reciproca simpatia. Non si può infatti non considerare il fatto che mentre Pepoli aveva un’alta considerazione delle doti intellettuali di Leopardi, questi, in virtù del suo genio, le scorgeva appena nell’interlocutore. Significativa, in merito, è l’involuzione del loro rapporto così come si evince tra le pieghe del carteggio. Nella lettera del 28 luglio 1830, Pepoli scrive: “Caro amico, io sono in gran collera teco e ne ho gran ragione. Si ha in Bologna un Manifesto ove si notano soscrizioni per la stampa di certi Canti di G. Leopardi, ed io lo devo sapere da altri invece di saperlo da te? Che avrò mai fatto per essere sì bruttamente trattato e proprio come se fossi l’ultimo de’ tuoi amici?”. Quella di Pepoli è una protesta intrisa di risentimento.
