Del corrosivo linguaggio di Leopardi nel demolire un obiettivo polemico, il giudizio che il poeta espresse sull’abate Francesco Cancellieri (storico, bibliotecario e bibliografo) è esemplare testimonianza. In una lettera che il poeta scrisse da Roma al fratello Carlo, il 25 novembre 1822, si legge: “Ieri fui da Cancellieri. E’ un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra. Parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile, ti affoga di complimenti e di lodi altissime, e ti fa gli uni e le altre in modo così gelato e con tale indifferenza, che a sentirlo, pare che l’essere uomo straordinario sia la cosa più ordinaria del mondo”. Questa puntuta missiva è contenuta nel volume “Giacomo Leopardi, Francesco Cancellieri (1815-1823)” che intende mostrare come il carteggio intercorso tra i due – costituito da ventidue lettere – si configuri quale “specola privilegiata” sia per osservare alcuni momenti della formazione giovanile e dell’iniziale produzione poetica del Recanatese, sia per riconsiderare certi aspetti del suo soggiorno romano tra il 1822 e il 1823.
Nonostante la differenza di età e di formazione, Cancellieri fu tra i primi a favorire i tentativi di Leopardi di accreditarsi nel mondo accademico ufficiale, prodigandosi, tra l’altro, affinché vedesse la luce la stampa di due sue liriche patriottiche. L’abate si impegnò anche nel trovare, per il Recanatese, un impiego a Roma. Qualche studioso, quindi, non ha potuto fare a meno di parlare di “ingratitudine” da parte di Leopardi – sulla base delle sue perentorie e taglienti valutazioni – nei riguardi di un uomo che, pur con tutti i suoi limiti e sempre angustiato da problemi di salute, si era speso, intuendone il genio, per aiutarlo ad integrarsi in un contesto complesso e pure ostile.
Va comunque precisato che da principio il modo in cui il poeta si rivolge a Cancellieri è elegante e signorile. Nella lettera del 15 aprile 1815 Leopardi si dice riconoscente del fatto di essere stato citato, pur essendo lui “sconosciuto”, nell’ambito di una egregia opera di cui Cancellieri gli aveva fatto dono. “Noi non conosceremmo Achille se Omero non ne avesse parlato, ma la immortalità del poeta garantisce quella dell’Eroe” osserva Leopardi.
Cancellieri usò sempre i suoi buoni uffici per agevolare il processo di stampa di alcune opere di Leopardi: processo che a quel tempo, per motivi anzitutto logistici, risultava essere spesso alquanto travagliato. Dopo tanta fatica da lui, in merito, sopportata, l’abate, in una missiva del 6 gennaio 1819, può finalmente scrivere: “Per mezzo della Posta de’Franchi, Le trasmetto le prime due Copie delle sue meravigliose Odi, avendo dato frattanto a piegare, ed a coprire con carta gialla, rossa, verde e turchina le Copie 312, che consegnerò in un Pacchetto ben custodito a Sig. Natanaele Fucili Vice Rettore del Collegio Capranica, com’Ella mi ha ingiunto”. Del sostegno che Cancelliere intese dare a Leopardi è significativo l’incipit della lettera del 13 gennaio 1819: “Dopo aver passato molte notti nella maggior inquietudine per timore di non riuscirci, son giunto a poter consegnare al Vice Rettore del Collegio Capranica l’involto di Copie 295”. Notti che erano già da tempo pesantemente condizionate dalle piaghe che segnavano il corpo dell’abate.
Il volume è prezioso anche nel documentare il difficile rapporto, impostato su toni risentiti e polemici, tra Leopardi e Roma, da lui attaccata su più fronti, da quello accademico a quello sociale e psicologico. “Secondo i letterati romani – afferma – il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un letterato Romano che intenda sotto il nome di letteratura altro che l’Archeologia”. Al contempo il Recanatese, nel denunciare la grandezza dispersiva della città, notava, tra l’amaro e il sarcastico, “la noia dipinta sul viso di tutti i mondani di Roma”. Quella grandezza alienante che rende “impossibile” godere dello “spettacolo”, “per bellissimo che sia”.