Mai statico, ma sempre in continua evoluzione fu il rapporto di Giacomo Leopardi con la luna. Un intreccio di sentimenti lega il poeta a quella luce lassù, e il legame che ne deriva riveste un’importanza nevralgica nello sviluppo della sua poetica. Pur appartenendo al mondo, Leopardi, attraverso la contemplazione della luna, se ne estranea, ed in questo distacco confluiscono sollievo ed estasi, ma anche malinconia ed amarezza.
Nel componimento “Alla luna” essa viene trattata come una donna amata, richiamando accenti petrarcheschi e foscoliani. La luna è “graziosa” ed è concepita come “mia diletta”. Viene così ad instaurarsi un monologo ritmato dalla tristezza per un futuro ostile e dalla nostalgia per i bei tempi passati. Ed è “cara” la luna nella “Vita solitaria”, sebbene il poeta si faccia anche interprete del disappunto di coloro che guardano ad essa con una vena di avversione perché non permette riparo e sicurezza qualora si voglia rimanere nascosti per agire nell’ombra. Elemento, questo, che si ritrova ne “I miserabili” di Victor Hugo, quando il galeotto dal cuore d’oro, Jean Valjean, cerca di sottrarsi alla cattura da parte del terribile ispettore Javert, e deve fare i conti con la luna, la quale mette a repentaglio la sua fuga con la tenerissima Colette illuminando, a tratti, i suoi passi e il suo volto.
La poesia in cui il sentimento di Leopardi per la luna viene espresso nella maniera più organica, con un respiro epico, è “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, dove il poeta, nelle vesti del pastore, interroga la luna sulla condizione umana e sul suo compito di governare il gregge che, in quanto di natura animale, non è a conoscenza del dolore dell’esistenza. Il “pastore” Leopardi stabilisce un parallelismo tra la sua vita e il viaggio notturno dell’astro: “Somiglia alla tua vita la vita del pastore”. Così come la luna compie ogni sera il suo percorso nel firmamento, anche il pastore percorre gli stessi campi ogni giorno, guardando le cose meccanicamente, senza un vero interesse. Non riuscendo a dare un senso alla propria vita, il pastore arriva a mettere in dubbio la sostanza dell’universo: “Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi?”. Sia all’esistenza umana sia al cosmo non sembrano arridere né un significato né un valore.
Ad aggravare il dolore del poeta è l’atteggiamento della luna, che è “intatta”, ovvero rivela disinteresse per le domande del pastore che esclama: “Ma tu mortal non sei, e, forse, del mio dir poco ti cale”. In realtà la luna è ben consapevole delle dinamiche che regolano gli accadimenti umani. Il pastore prosegue comunque il suo colloquio con la luna “eterna peregrina”, chiedendole perché gli uomini soffrono e continuano a desiderare, nonostante essi già sappiano che nessuno dei loro desideri sarà soddisfatto.
Prima di rivolgersi alle pecore, l’unica compagnia di esseri viventi di cui dispone, il pastore alza per l’ultima volta gli occhi in direzione della luna, e il suo sguardo si allarga fino ad abbracciare l’intero cosmo. Nell’universo “smisurato e superbo” la luna occupa un posto di prestigio, come se fosse in cattedra ad ascoltare le domande di un discente che, assillato dal dubbio e minato dall’angoscia, mira a ghermire il senso della vita. La luna ascolta tacita, ma il suo silenzio, in verità, non è segno di indifferenza. E’ piuttosto una partecipazione, discreta, al dolore che affligge l’umanità.
