Nelle prime pagine dello “Zibaldone”, risalenti al gennaio 1820, Leopardi scrive che l’uomo, “buon per natura”, si guasta “nella società”. Questo pensiero echeggia Rousseau, secondo cui l’individuo che non vive secondo natura è un essere “corrotto”. Nel momento in cui vergava la postilla zibaldoniana, il poeta non aveva ancora un’esperienza del mondo. La sua polemica aveva una dimensione locale, essendo diretta, e non poteva essere altrimenti, contro i recanatesi incapaci di stimare il suo genio. Diciottenne, con bieco umorismo scrive al Giordani che Recanati gli è così cara da procurargli “le belle idee per un trattato dell’Odio della patria”. Non perdona l’indifferenza dei concittadini nei suoi confronti e, rivolgendosi sempre al Giordani, dichiara: “Crede ella che un grande ingegno sarebbe a Recanati apprezzato? Come la gemma nel letamaio”.
Poi annota che “conversare con questa gente è una disgrazia” che gli accresce “la malinconia”. “Il natio borgo selvaggio” rappresenta per lui “un serraglio dove mancano i diletti della società civile”. Successivamente la ristretta ma a suo modo esemplare esperienza recanatese viene superata. Leopardi allarga l’orizzonte e la critica della società diventa una presa di posizione di principio, caricandosi di una forte tensione morale. Alla luce di tale tensione, la società viene intesa come dominata dall’egoismo individuale. Questo dominio la rende “barbara, e barbara della maggior barbarie”. A differenza di Rousseau, che concepiva la “volontà generale” come lo strumento del bene comune, Leopardi nega l’efficacia di tale volontà perché vede in essa un intrico di opinioni e di propositi i quali, tutti volti all’interesse proprio, rendono impossibile l’attuazione del bene dell’intera collettività. Pertanto nei tempi moderni la società politica non può esistere: di essa vi è solo una parvenza. “Il mondo – scrive – ha marcito appresso a poco in questo stato dal principio dell’impero romano, fino al nostro secolo”.
Tuttavia, temendo di rimanere sempre più isolato, Leopardi preferisce attenuare il suo giudizio negativo della società. Uomo di lettere, che soffre di vivere nella “sepoltura” di Recanati, avverte la concreta necessità di stabilire contatti con il mondo esterno. Significativamente, nell’aprile del 1820, scrive: “Son certo di non poter mai conseguire neppure quella fama a cui si sollevano i più piccoli scrittorelli, e che non si ottiene se non per mezzo di conoscenze, e di una vita menata in mezzo al mondo, e non del tutto fuori”.